The Last Dance: recensione della docu-serie Netflix su Michael Jordan e i Chicago Bulls
Alla scoperta della più grande squadra di basket della storia e dei suoi protagonisti
The Last Dance, la serie Netflix più vista di sempre nel nostro paese, è ormai diventata un fenomeno mediatico planetario e globale che ha trovato il plauso di tutto il mondo. In queste cinque settimane tutti hanno aspettato il lunedì per poter scoprire le gesta e gli aneddoti segreti riguardo la più grande squadra di basket della storia: i Chicago Bulls degli anni Novanta. Il team di Michael Jordan, Scottie Pippen, Dennis Rodman, Steve Kerr e Phil Jackson; la compagine costruita dal grande GM Jerry Krause e dal suo presidente Jerry Reinsdorf. Pertanto se l’attenzione di questi giorni è stata giustificata, le aspettative e l’attesa son state addirittura superiori. Approfondiamo i temi di The Last Dance in questa nostra recensione.
Il contenuto prodotto da Espn è stato fortemente pubblicizzato come un evento inedito, all’interno del quale si sarebbero scoperti tutti i retroscena e i dietro le quinte dei Chicago Bulls del 1998. Ideata da Michael Tollin e diretta da Jason Hehir, la serie è stata resa disponibile sulla piattaforma streaming il 19 aprile 2020, in anticipo rispetto alla data stabilita a causa dell’emergenza COVID-19. Tuttavia è innegabile che l’opera abbia dei grandi difetti, in particolare dovuti al modo in cui tratta molte tematiche e congiunture sportive in maniera unilaterale. Difatti il contenuto Netflix è stato sponsorizzato come un documentario, ma tutto sembra fuorché un prodotto giornalistico.
Indice
- La trama
- Il divario tra documentario e agiografia
- I retroscena e l’incoerenza finale
- Il lato tecnico
- Considerazioni finali
La trama – The Last Dance recensione
La serie racconta dell’ultima stagione, l’ultimo ballo, l’ultima danza celestiale della “Squadra” di basket che ha incantato tutti gli appassionati per un’intera decade. Parla anche e soprattutto del loro leader, del capobranco, del maschio alpha: Michael Jeffrey Jordan. Favoleggia sul loro condottiero: Phil Jackson, detto anche “il maestro Zen”. Riferisce di tanti campioni e protagonisti, da Bulls fedeli come Scottie Pippen e Dennis Rodman ad acerrimi rivali come Isiah Thomas e Gary Payton. The Last Dance ci narra in sostanza l’epopea dell’ascesa e il tramonto di questo magico team, con un occhio di riguardo per la parabola di Jordan. È lui infatti il filo conduttore della narrazione e tutto parte dal suo sogno per la NBA. Si risale così fino al mitologico 1998, l’anno in cui la pallacanestro non è stata più la stessa senza MJ.
Nello specifico il docu-drama sportivo ci narra questa storia epica dividendosi in due linee temporali. La prima, nonché quella che dà il titolo alla serie, riguardante la stagione sportiva 1997-1998; la seconda invece va a ritroso, portandoci con numerosi flashback indietro nel tempo nella vita di Jordan. Ci illustra la sua passione infantile per il basket, l’arrivo in NCAA alla corte di Dean Smith presso l’università del North Carolina, il suo approdo in NBA e il miglioramento costante come cestista. Si attraversano così tutti i fallimenti, le illusioni e le vittorie di questo campione immortale, effige e idolo degli Stati Uniti di fine millennio, che non solo ha cambiato la storia di una franchigia perdente, ma ha dimostrato a tutti -avversari e sostenitori- la sua grandezza. The Last Dance è quindi un viaggio nella storia dello sport, che ci regala momenti di intrattenimento e spunti di riflessione.
Il divario tra documentario e agiografia
Uno degli aspetti più evidenti che si scorge dopo la visione di The Last Dance è sicuramente la sua struttura non documentaristica. La serie non appare assolutamente un prodotto giornalistico, bensì assume i tratti di un agiografia. Tutti gli episodi si concentrano moltissimo e quasi ossessivamente su un solo personaggio: Michael Jordan. Poco importa quindi se qua e là vi sono degli excursus sui suoi compagni di squadra e il loro valore umano, alla fine il tutto ruota attorno a “His Airness”. Sotto questo punto di vista quindi l’opera ha un difetto enorme: quello di innalzare un giocatore troppo al di sopra degli altri, sebbene sia il leader. Per farlo in primis decide di mentire e di stravolgere la storia, patrocinando l’ipocrisia e l’attenzione commerciale del 23 dei Bulls rispetto all’impegno politico e sociale di Muhammad Alì.
In secundis non definisce un uomo, con i suoi errori umani e le sue contraddizioni, piuttosto traccia la figura di un Dio. Ora, al di là dell’umorismo da bar o dai discorsi frivoli, il contenuto sotto questa prospettiva è anche diseducativo. Infatti in un certo qual modo giustifica e perdona a Jordan tutti i suoi peccati: dal gioco d’azzardo al suo essere cattivo con i compagni, dalla sua arroganza al suo essere vendicativo. In aggiunta la versione dei fatti che si ascolta è sempre quella di “The Black Cat” e dei suoi adepti, discrimine principale rispetto ad una produzione giornalistica. Così nelle controversie la controparte o appare in maniera marginale o è semplicemente assente. In generale quindi la docu-serie cerca di presentare un superuomo, a cui tutto è permesso in vista della vittoria, che ha pochissimi dubbi ed è circondato da un alone di infallibilità simil-papale.
I retroscena e l’incoerenza finale
Altre due sono le tematiche cardine di The Last Dance che analizziamo in questa recensione: i retroscena e l’incoerenza finale. In primo luogo i retroscena non sono solo una parte importante della serie, ma anche il motivo di tanta attesa mediatica. Lo diciamo subito: non hanno assolutamente deluso. Con essi si entra maggiormente in questa stressante giostra che è la vita NBA, dove i giocatori si rivelano per quello che sono solo dietro le quinte. Si vengono così a scoprire tanti segreti, i quali si differenziano tra malelingue, tradimenti, vendette, affetti nascosti e buffi aneddoti. Inoltre spesso sono rivelatori di spartiacque importanti per i Bulls degli anni Novanta, grazie ai quali si possono comprendere meglio alcune decisioni e scelte dei singoli. Essi sono quindi gestiti saggiamente, riuscendo a rifuggire il particolarismo eccessivo adatto più ai fan che al grande pubblico. In secondo luogo vi è l’incoerenza finale.
Come detto il prodotto presenta costantemente una squadra infallibile e un idolo al di sopra di tutti, un giocatore trascendente i concetti di Bene e Male e autorizzato a dettare “Legge“ ovunque. Tuttavia il castello costruitogli attorno crolla proprio sul finale, dove “The GOAT” si rivela inferiore all’aura divina che lo ha circondato per tutti gli episodi, dimostrando di non accettare di essersi ritirato da vincente. Ancora una volta quindi il campione pensa di battere padre tempo, ma esso non fa sconti. È così che involontariamente – perché le scene finali sono epiche e prive dell’intenzione di razionalizzare quanto lungamente millantato – MJ si dimostra umano e come tale si porta dietro tutti i suoi difetti. Ma ciò non basta perché la serie vuole anche lasciarci con un comandamento del Messia: “tutto parte dalla speranza“. Questa sembra la solita frase motivazionale dei prodotti Neflix, vuota e figlia delle ridondanti produzioni americane.
The last Dance recensione
Procediamo nella recensione di The Last Dance approfondendo il lato tecnico dell’opera. La serie è ben fatta tecnicamente, con delle belle interviste che toccano i temi principali della storia dei Bulls degli anni Ottanta e Novanta. Nonostante i protagonisti siano i giocatori, tutti hanno grande prestanza scenica, derivatagli probabilmente da anni sotto i riflettori. La regia, pur trattandosi di un documentario, è altresì molto buona e in certi casi molto particolare ed interessante. Essa diventa preponderante nella scelta dei ralenti, dei primi piani in determinati momenti e nella gestione tra immagini di repertorio, backstage inediti e commenti degli addetti ai lavori. La fotografia è ottima e ugualmente la scenografia; La colonna sonora, inoltre, è perfetta e dà quel qualcosa in più alla serie, rendendola molto più appetibile a livello di intrattenimento audiovisivo.
Una pecca non indifferente è invece rappresentata dai sottotitoli, i quali sono stati inficiati a causa del anticipazione dell’uscita. Essa ha dato poco tempo ai traduttori di fare ricerca per molti dei termini tecnici utilizzati e alle volte ciò ha portato all’utilizzo di termini sbagliati. Il montaggio è eccellente e denota una grandissima cura. Quest’ultima permette di non perdere mai il filo delle vicende, nonostante i tantissimi salti temporali. Vi è poi un aspetto particolare che forse si può cogliere più attentamente: il miglioramento tecnico da puntata a puntata. Sono un po’ più caotiche e abbozzate le prime, mentre nel prosieguo si nota una maggiora quadratura e pianificazione dei tempi. Bella anche la dedica in onore dello scomparso Kobe Bryant nella quinta puntata: un momento toccante.
Considerazioni finali – The Last Dance recensione
Nella conclusione della nostra recensione di The Last Dance vogliamo sottolineare come il film si prefiguri come una grande opera di intrattenimento ma nulla di più. Questa valutazione emerge alla luce della pubblicizzazione dell’opera da parte di Espn e Netflix, i quali avevano promesso un documentario giornalistico si epico ma comunque con una sua obiettività. La serie si perde invece in una continua esaltazione dei singoli, dove il “noi” di squadra viene solo abbozzato. A testimonianza di ciò perviene anche l’impalcatura narrativa, propensa ad identificare buoni e cattivi, eroi e villain; tutto però senza oggettività e consapevolezza storica, ma sulla base di esternazioni personali, soggettive e partitistiche dei diretti interessati. Manca quindi una prospettiva esterna, capace di ricapitolare i fatti, ricostruirli e offrire diversi pareri sulle controversie. Lo spettacolo invece abbonda, con una capacità di far vivere lo sport che poche volte si era vista in televisione.
Un pregio di The Last Dance è certamente l’aspetto divulgativo, che, nonostante qualche défaillance, si mantene sempre costante. Tuttavia i paragoni azzardati con documentari come Hoop Dreams e When We Were Kings non reggono il confronto e il contenuto in questione è inferiore. Pertanto The Last Dance è una spettacolare, interessante, divulgativa serie sullo sport, ma non un’opera giornalistica. Infine è importante evidenziare come l’opera abbracci troppo esplicitamente alcuni discutibili valori della cultura americana, ammiccando impudentemente ad un ideale di successo umano puramente economico. Ecco che viene esaltato il brand Jordan e la sua macchina di soldi come una sorta di bene posizionale, idoneo ad elevare lo status sociale di un individuo.
The Last Dance
Voto - 6.5
6.5
Lati positivi
- Grande cura tecnica
- L'attenzione divulgativa per lo sport e l'intrattenimento
Lati negativi
- Non è un'opera giornalistica o un documentario vero e proprio
- L'unilateralità delle posizioni e la mancanza di prospettiva storica