Non sono più qui: recensione del dramma messicano targato Netflix
La recensione del ritorno cinematografico di Fernando Frias de la Parra
A distanza di sette anni dal suo ultimo lavoro cinematografico, Fernando Frias de la Parra torna al cinema con un progetto ambizioso come Non sono più qui. Il film rientra nella scia dell’emergente cinematografia messicana, della quale anche un colosso come Netflix ha intravisto le enormi potenzialità. La pellicola in questione si qualifica sostanzialmente come un dramma moderno, con una particolare vena realista e con alcuni tratti documentaristici. Allo stesso tempo vengono trattati temi molto importanti come la solitudine, l’abbandono della terra natia, la barriera linguistica e la fine del sogno americano. In esse dunque si intravedono le ingenti capacità del prodotto, che, a onor del vero, non delude mai. Approfondiamo le tematiche di Non sono più qui nel prosieguo della nostra recensione.
Distribuito da Netflix, il lungometraggio è stato reso disponibile sulla piattaforma streaming a partire dal 27 maggio 2020, dopo esser stato selezionato per il Tribeca Film Festival. Al contempo stupisce la presenza di un cast esordiente, ma molto convincente, nel quale emerge indubbiamente il protagonista Juan Daniel Garcia. Tuttavia il contenuto abusa un po’ troppo del citazionismo, ricalcando lo stile di Lanthimos, Ford, Rosi e Crystal Moselle. Ciononostante il film è sicuramente un buon lavoro, improntato alla riflessione e alla critica, pur avendo dalla sua alcuni difetti che ne intaccano parzialmente l’efficacia. Scopriamo di più in questa recensione di Non sono più qui.
Indice
- La trama
- La solitudine e l’abbandono della terra natia
- La barriera linguistica e la fine del sogno americano
- Il lato tecnico
- Considerazioni finali
La trama – Non sono più qui, la recensione
A Monterrey, in Messico, Ulises Sampiero (Juan Daniel Garcia) è il leader diciassettenne di una banda locale denominata “Los Terkos” (I Testardi), con la quale passa le giornate a ballare. Proprio la danza rappresenta il termometro emotivo dei membri del gruppo, appassionati della cumbia kolombiana: una controcultura messicana in forte ascesa. Contemporaneamente però la gang si dedica anche a dei piccoli furti, che costituiranno motivo di scontro con alcune organizzazioni criminali limitrofe. Questo litigio, inizialmente ignorato dal protagonista, farà scaturire un terribile malinteso con un altro clan criminale, che gli giurerà vendetta. Per questo motivo Ulises sarà costretto ad emigrare clandestinamente a New York, negli Stati Uniti, unico paese sicuro in virtù della sua lontanza.
Qui cercherà di ripartire e di ricostruirsi una vita, sebbene il richiamo di casa e dei suoi migliori amici Chaparra (Coral Puente), Jeremy (Jonathan Espinoza) e Negra (Fanny Tovar) sia sempre più forte. In seguito, nella ricerca di un alloggio e di un lavoro, farà la conoscenza di Lin (Angelina Chen), nipote del padrone di un negozio per il quale il ragazzo aveva lavorato. Tuttavia, nonostante la bontà delle intenzioni e l’interesse amoroso della ragazza, persiste tra i due un problema insormontabile: la lingua. Ulises non parla e nemmeno cerca di parlare l’inglese, precludendosi così qualsiasi integrazione con il territorio. In questo contesto quindi si svilupperanno una serie di peripezie e situazioni che lo segneranno profondamente, costringendolo a delle difficili valutazioni. Come andrà a finire?
La solitudine e l’abbandono della terra natia
Non sono più qui è un film d’autore molto complesso, in cui i temi della solitudine e dell’abbandono della terra natia costituiscono le assi portanti del ragionamento del regista. Le due tematiche sono fortemente collegate tra loro, soprattutto perché l’una è condizione necessaria e sufficiente dell’altra. La solitudine viene sapientemente trattata nel corso dell’opera e analizzata attraverso diverse prospettive. Il protagonista indubbiamente sublima questo sentimento e lo esemplifica nel suo comportamento, ma l’argomento non si inquadra soltanto nell’ottica umana; infatti interessa anche la dimensione geografica e quella temporale. Pertanto non stupisce l’abbandono di Monterrey da parte del governo messicano, che decide di condannare alla solitudine perenne le aree del luogo. Altrettanto può dirsi per Gladys (Adriana Arbelaes), vecchia emigrata colombiana che, nonostante il lavoro in un night club in una metropoli come la Grande Mela, riesce ad essere sostanzialmente sola.
Ecco quindi che la solitudine diviene una condizione esistenziale imbattibile, una distanza con gli altri non solo fisica, ma anche emotiva. Essa fa da l’apripista al secondo vero tema che analizziamo in questa recensione di Non sono più qui: l’abbandono della terra natia. Quest’ultimo per il protagonista non rappresenta solo la fine della sua vita quotidiana, bensì anche la recisione dei suoi legami affettivi e della sua appartenenza ad un gruppo. Ecco che qui, come direbbe Martha Nussbaum, viene a cedere la capacità centrale dell’appartenenza di un individuo, base del riconoscimento sociale. Perciò la distanza fisica si trasla in una premessa: la premessa della fine di una determinata personalità. Così facendo il vecchio Ulises muore e la sua precedente soggettività si perde, vista e considerata la sua impossibilità di integrarsi e la sua difficoltà nel legare con l’ambiente circostante. Il finale è esemplificativo in tal senso.
La barriera linguistica e la fine del sogno americano
Due argomenti altrettanto importanti del lungometraggio in questione sono sicuramente quelli della barriera linguistica e della fine del sogno americano. Essi si sviluppano nella medesima atmosfera di fondo e con una certa omogeneità nella loro esplicazione. In primo luogo la barriera linguistica viene assunta dal regista come leitmotiv della narrazione. Essa appare volutamente sincopata, abbozzata ed interrotta, come se volesse documentare realmente la comunicazione tra soggetti di lingue e culture diverse. Exemplum perfetto di tale situazione è la relazione tra Lin e Ulises, incapace di sorpassare alcune interazioni elementari tra persone. L’autore in tal modo comunica la sua concezione della lingua, unico veicolo di scambio interpersonale in grado di far maturare i rapporti. È palpabile infatti che tra i due ragazzi ci sia tensione ed attrazione sessuale, ma la loro complessità nel esprimersi non consente la fioritura di un legame passionale.
In secondo luogo si profila nella pellicola la critica al sogno americano. Esso è fondamentalmente finito nella versione del regista, dal momento che tratteggia degli Stati Uniti esclusivi. La società occidentale non aiuta lo straniero, ma anzi lo emargina, pensando bene di non curarsene. L’american dream è oramai morto e sepolto poiché non ci sono sbocchi per i giovani immigrati ed essi non hanno una concreta possibilità di realizzarsi e maturare. Ma l’elemento dell’opera che colpisce maggiormente è la definizione della mancanza di procedure e sistemi d’integrazione. La barriera linguistica si pone come ostacolo proprio laddove viene a mancare il Welfare State e lo stesso può dirsi per le opportunità lavorative, di studio o di crescita. Gli Stati Uniti appaiono dunque come un grande raccoglitore di nazionalità e popolazioni e non invece una costellazione, con le sue armonie e la sua fisionomia ben delineata.
Il lato tecnico – Non sono più qui, la recensione
Procediamo nella recensione di Non sono più qui approfondendo il lato tecnico dell’opera. Tecnicamente la pellicola è ben interpretata, con ottime performance da parte di Juan Daniel Garcia Treviño e Adriana Arbelaes. Il primo risulta mastodontico nell’impersonare le paure, le difficoltà e le speranze di un giovane diciassettenne dalla vita spezzata da eventi più grandi di lui. La seconda, per quanto la sua apparizione sia breve, ha un impatto fortissimo sulla lettura della pellicola e ci dona un carattere dolceamaro. La regia è molto buona, ma risente di un influenza postmoderna eccessiva; si vede che de la Parra ha studiato tanti maestri del passato e risulta impossibile non intravedere echi a film come Sentieri selvaggi, Notorius e Skate Kitchen. È altresì interessante vedere gli espedienti registici più frequenti, che si concretizzano in carrellate a precedere, panoramiche oblique e in giochi di messa a fuoco sfruttando la profondità di campo.
La fotografia è di buon livello e parimenti la scenografia, capace di dare corpo e vividezza all’uso di una luce prevalentemente fredda, ma con punte calde. Il montaggio è invece un lato negativo del film poiché spesso si perde in alcune sequenze; emblematico il suo utilizzo nel finale, che pare un po’ frettoloso. La colonna sonora è un capitolo a se stante perché scandisce determinati turning points della storia. La cumbia kolombiana non è solo uno stile musicale, bensì una subcultura, un modo di essere e di comportarsi. Esprime sentimenti puri e va ad un ritmo lento giacché “quando è più lenta la senti di più”. Sotto questo punto di vista il lungometraggio, molto musicale e con numerosi momenti dove la danza ruba letteralmente la scena, segna un ascolto personale. Nota dolente invece lo sviluppo psicologico di alcuni personaggi secondari, non valorizzati del tutto dalla sceneggiatura.
Considerazioni finali – Non sono più qui, la recensione
Nella conclusione della nostra recensione di Non sono più qui vogliamo sottolineare come il film sia ben fatto e prodotto con cura. Esso è capace di far riflettere lo spettatore e descrive le dinamiche sociali di un contesto originale e sconosciuto. Inoltre il regista tratteggia i meccanismi e l’appartenenza ad una sottocultura in maniera veramente mirabile. Le citazioni sono però una pecca dell’opera, sebbene ci si renda conto che per de la Parra questo sia solo il secondo approccio al mezzo cinematografico. È intrigante pure il taglio documentaristico adottato in certi frangenti, dove si predilige una camera fissa attivata dal dinamismo dei personaggi sulla scena. Infine la più grande pecca del film è forse la gestione della conclusione, troppo sbrigativo a fronte di una buona costruzione narrativa ed artistica.
Come già detto il montaggio affretta un po’ il tutto e impedisce al lavoro di de la Parra di avere il giusto respiro. Un elemento deficitario è l’uso incauto di alcuni stilemi della cinematografia sudamericana, in particolare quello di espedienti molto vicini allo stile di Meirelles e Acevedo. Per questo motivo, nonostante ci si trovi davanti ad una buonissima pellicola, va sottolineata comunque la presenza di alcune criticità. Queste vanno ad inficiare una valutazione molto alta del contenuto, cosa che le tematiche analizzate avrebbero sicuramente meritato.
Non sono più qui
Voto - 7.5
7.5
Lati positivi
- Approfondimento delle tematiche
- Buone interpretazioni
- Ottima regia
- Interessante tono documentaristico
Lati negativi
- Abbozzata caratterizzazione dei personaggi secondari
- Epilogo affrettato e montaggio deficitario