Intervista a Claudia Tranchese: dopo il successo di “Gomorra”, torna su Netflix con “Generazione 56K”
FilmPost presenta un’interessante intervista a Claudia Tranchese, attrice che ha conquistato il pubblico nella quarta stagione di Gomorra con il sorprendente ruolo di Grazia Levante e che ritroveremo anche nella prossima ed attesa quinta stagione. Nel 2020, arriva su Netflix con Sotto il sole di Riccione, nel ruolo di Emma. A distanza di un anno esatto, torna sull’ambita piattaforma con la serie Generazione 56K, nel ruolo della determinata, colorata e sincera Ines. Grazie al suo personaggio, porta una ventata di freschezza all’interno di una narrazione sorprendentemente convincente e moderna.
Claudia Tranchese rappresenta un’attrice camaleontica che riesce ad essere credibile nel genere drammatico così come nella commedia. Il suo mestiere la porta a mettersi in discussione continuamente ed ogni mattoncino che riesce a plasmare per la sua carriera è un passo fondamentale per costruire quella strada che sogna sin da bambina. L’obiettivo è quello di toccare ed abbracciare tutte le cose che credeva così lontane da conquistare. Ed invece no, ogni giorno, sono sempre più vicine. La stanno soltanto aspettando lì, da qualche parte.
La nostra intervista a Claudia Tranchese
La narrazione di Generazione 56K si svolge in un continuo ponte temporale tra gli anni Novanta e i giorni nostri, in un flashback costante tra l’infanzia dei protagonisti e la loro vita di oggi. In che modo ti sei avvicinata alla Ines bambina per interpretare la tua Ines?
Quando ho incontrato Sveva Simeone, l’attrice che interpreta Ines da bambina, c’è stato un momento di grande tenerezza. Eravamo imbarazzate e riconoscevamo l’una nell’altra degli aspetti fisici molto simili. L’ho accolta sin da subito per metterla a suo agio. Ci osservavamo tanto per cercare di studiare ogni atteggiamento, ogni movimento. Ho notato che Sveva metteva continuamente le mani nei capelli. Quel gesto, che poi si vede nella serie, non era il mio ma un suo atteggiamento. Mi sono detta: “Ok, sono io che devo andarle incontro”. Sveva rappresenta l’inizio ed è lei che presenta Ines agli spettatori. Ho voluto creare una connessione con il suo modo di essere.
Il gesto di Ines che si tocca i capelli è molto significativo all’interno di alcune scene. Cosa vuole trasmettere, secondo te?
Quel gesto delle mani nei capelli rappresenta una sorta di imbarazzo per il mio personaggio. Ines è molto forte, però in lei ho sempre visto una sfumatura di base che rappresenta una crepa che ti lascia intravedere una timidezza. Quella sua timidezza la porta a reagire sempre in maniera esuberante, un po’ eccentrica per nascondere qualcosa. Il toccarsi continuamente i capelli, per me, rappresenta un gesto di insicurezza che fa a cazzotti con il suo atteggiamento sicuro. La sua sicurezza nasconde mille insicurezze che non lascia vedere. Guardandola nei rapporti con il figlio ed il marito, gli spettatori possono chiedersi quanto effettivamente Ines si senta soddisfatta della sua vita privata.
Generazione 56K racconta l’importanza dei legami umani, tra amore ed amicizia. Cosa ti affascina maggiormente di questa serie?
Sicuramente, raccontiamo una storia d’amore. Quando ho letto la sceneggiatura, mi è arrivata l’importanza dell’amicizia, dei legami umani. Per me, l’amicizia è una grande forma d’amore. L’unica differenza tra amore ed amicizia è la mancanza di attrazione fisica che sposta il sentimento su terreni differenti. Vivo le mie amicizie come dei rapporti d’amore. Mi aspetto la stessa lealtà che dono. Credo che sia bellissimo vedere come Ines e Martina abbiano creato il loro legame sin da piccole. E sono state così brave da portarlo avanti nel corso del tempo. Entrambe si sono prese cura della possibilità che si sono date. Il motore principale di Generazione 56K è l’amicizia.
La nostra intervista a Claudia Tranchese
Di episodio in episodio, emerge la grande sintonia tra Ines e Matilda. Come è stato, per te, lavorare accanto a Cristina Cappelli?
Ai provini, io e Cristina non ci siamo mai incontrate. Ci siamo conosciute alla prova costume e quando ci siamo incontrate, è come se ci fossimo percepite così simili e familiari. In questo mestiere, quando incontri persone con un cuore libero è bellissimo. Dopo il nostro primo incontro, che è durato un’ora, ho capito che dall’altra parte c’era una persona simile a me. Per me, è stato fondamentale uno sguardo che c’è stato tra me e Cristina durante le letture.
Sono quei gesti, quelle parole non dette che ti dimostrano che, all’interno di un progetto, puoi farcela e puoi fare qualcosa di bello con l’altra persona. Non c’è mai stato un momento di tentennamento tra di noi. C’eravamo entrambe. Ci siamo riconosciute come amiche perché entrambe stavamo lavorando allo stesso modo. Ci siamo sempre aiutate sul set, ci siamo date l’opportunità di costruire le scene insieme. Questo lavoro mi emoziona perché mette insieme le vite vere, può creare delle connessioni reali, che vanno al di là del set.
Quanto è stato importante, per te, approdare in una serie come Gomorra, amata in tutto il mondo?
Per tutta la mia infanzia mi sono chiesta: “Come si fa ad andare al di là del vetro e toccare ciò che vedo da lontano?”. Quando sono arrivata sul set, ho sentito la percezione di essere salita su una macchina gigante, di far parte di un carro enorme che parte dall’Italia e arriva in tutto il mondo. La percezione ce l’ho e me la porto dietro in ogni cosa che faccio. Prima di Gomorra avevo fatto dei piccoli ruoli. Iniziare con una serie del genere e con un ruolo ben definito, mi ha fatto sentire parte di un progetto. Sentire la grandezza del progetto, ti regala un senso di responsabilità che ti fa capire il grande lavoro da fare.
Cosa ne pensi di chi accusa Gomorra di indurre i giovani spettatori all’emulazione di comportamenti violenti?
Gomorra, in quanto serie televisiva, ha l’obiettivo di intrattenere. Non è un documentario. Molto spesso, tutto questo si dimentica. Ha un messaggio da dare, sicuramente, e quello lo conosceremo alla fine della storia. C’è chi attribuisce a Gomorra delle cause e delle colpe sull’effetto dell’emulazione che ha sulle persone. Credo che non sia giusto attribuire ad una serie il compito di documentare. Per interpretare i nostri personaggi, abbiamo studiato alcuni documenti, abbiamo studiato le vite di persone a cui, lontanamente, ci siamo ispirati.
I ragazzi hanno bisogno della scuola e della famiglia che li aiutino a possedere degli strumenti di comprensione e di valori per decodificare dei messaggi che arrivano. Sono felice di avere avuto la possibilità di prendere parte ad una serie così importante. Non mi piego, minimamente, di fronte alle critiche e ne prendo totalmente le distanze.
La nostra intervista a Claudia Tranchese
Nel 2020, sei approdata su Netflix con il film Sotto il sole di Riccione, mentre, adesso, sei sulla piattaforma con una serie. A distanza di un anno, quanto è cambiata Claudia Tranchese?
Mi sento più consapevole. Sai, chi si costruisce da sola, è particolarmente sensibile ad ogni mattoncino che riesce ad aggiungere. Ogni tassello che aggiungi, grazie al tuo impegno e alle persone che ti danno la possibilità di farlo, è come se ti permettesse di aumentare la presa di coscienza di ciò che sei e di chi puoi diventare. Tutto questo ti aiuta a progettare, a guardare un po’ più in là. ‘Sotto il sole di Riccione’ mi ha dato un po’ di respiro dopo un ruolo drammatico come quello di Grazia in ‘Gomorra’.
Mi ha dato la possibilità di respirare un registro differente. Mi sono messa in discussione, mi sono spogliata della drammaticità e mi sono detta: “Voglio vedere cosa posso fare”. Grazie a quella pellicola, ho esordito su Netflix e ne sono felicissima. Con Generazione 56K, ho aggiunto un altro mattoncino ancora, con una comicità differente. Dal ruolo di Emma al ruolo di Ines, a distanza di un anno, sono cresciuta anche io nella vita. Ho conquistato una maggiore consapevolezza dei miei strumenti che prima tendevo sempre a sminuire.
In che modo sminuivi te stessa come attrice?
La tendenza dell’attore è spesso quella di dire: “Non riesco a vedermi, non riesco ad ascoltarmi, non mi piace quello che ho fatto”. Non mi piaccio mai fisicamente in tutto ciò che faccio. Quando mi guardo sullo schermo, non sempre riconosco le cose belle. Arriva prima la parte critica e poi, inizio a vedere le cose belle. Oggi, posso dirti che ho maturato delle consapevolezze diverse.
Generazione 56K mi ha aiutato a staccarmi da questa ossessione dell’aspetto e del dover essere sempre perfetta. Questo seme di consapevolezza me l’aveva già donato Gomorra. Sul set, ho dimenticato di pensare e di chiedermi: “Sto bene?”. Adesso, voglio trasformarmi in qualcosa di diverso, voglio staccarmi dalla mia immagine ed essere il personaggio che mi viene donato. Voglio dimenticarmi totalmente di chi sono.
Il mestiere dell’attore ti mette continuamente alla prova. Come vivi i “no” nel tuo lavoro?
Il nostro è un mestiere molto complesso, fatto di tante attese e di tanti ‘no’. Ti devi mettere in discussione e a nudo, ogni volta. Sei di fronte a qualcuno che ti deve giudicare. Ti prendi tutti i no e non è mai facile. Ci sono momenti in cui ricevi una risposta negativa e ti dici: “Ok, ci sarà altro”. Ma ci sono tanti altri momenti in cui te ne dispiaci. Credo che sia normale ed è molto importante incanalare tutti i no ricevuti nel modo più giusto. E soprattutto non bisogna buttare quelle risposte negative nei rapporti con gli altri. Non fa bene a nessuno.
La nostra intervista a Claudia Tranchese
Quanto è stata decisiva la tua famiglia all’inizio del tuo percorso artistico?
Quando arrivi dalla periferia, cresci con un grande desiderio di rivalsa verso la vita. Non possiamo negare che la periferia abbia delle enormi differenze con la città. Sono nata in un paese con tre chiese, quattro supermercati ma non c’erano un cinema, una biblioteca, un polo per i giovani che potesse rappresentare un’alternativa alla strada. Se non hai una famiglia alle spalle che ti permette di vedere che al di là del posto in cui abiti, c’è altro, finisci per fare delle cose sbagliate. Sono stata fortunata perché la mia famiglia mi ha indicato la strada migliore, mi ha dato dei valori che mi hanno orientata. I film mi mostravano una realtà che non vivevo. Adesso, nessuno mi toglierà la sensazione di rivalsa perché soltanto io so quanto abbia desiderato, sin da bambina, delle cose che vedevo e percepivo lontane.
L’altro giorno, leggevo un’intervista di Margot Robbie che si batte affinché le attrici possano avere ruoli d’azione all’interno dei film. Cosa ne pensi al riguardo?
Dentro di me, ho sempre avuto una certa sensibilità ai ruoli da combattente. Per esempio, amerei un ruolo d’azione. Ma mi piacerebbe, in generale, che venisse raccontato l’universo della donna così come viene raccontato quello degli uomini. Mi piacerebbe che ogni storia avesse un’opportunità, non che le storie maschili prevalgano su quelle femminili e viceversa. Non vorrei mai un cinema con sole donne oppure con soli uomini.
Voglio che venga raccontata la realtà e la realtà è composta da uomini e donne. In Italia, ci stiamo muovendo tantissimo sia per quanto riguarda la sperimentazione di generi diversi sia per l’attenzione alle donne. Ho molto fiducia nelle idee e nelle storie. Mi auguro che arrivino sempre più storie reali ed interessanti. Che siano storie che possano raccontare il bene ed il male per dare l’opportunità agli attori di portare un messaggio a chi guarda.
Se provi a definire l’essere attrice nel 2021, che definizione ti viene in mente?
La prima parola che mi viene in mente è “responsabilità”. Sarà che ho addosso sempre un senso di responsabilità molto forte che mi porta a chiedermi: “Sto facendo la cosa giusta? Questa cosa è giusta per me e per gli altri?” Sono sempre molto attenta a ciò che faccio, al modo in cui la mia azione può essere utile e di ispirazione per gli altri. La visione dell’attore è un po’ cambiata, oggi. Prima si tendeva a non sapere nulla degli artisti. Invece, adesso, i social hanno reso il mondo degli attori più accessibile a tutti. Ho preso la decisione di utilizzare i social come uno strumento per veicolare il mio lavoro.
Mi può aiutare a far sapere alle persone cosa sta succedendo nella mia vita lavorativa. Sicuramente, ci saranno momenti in cui condividerò un piccolo spaccato della mia vita privata ma sento molto la responsabilità di ciò che posso mostrare. Non vorrei mai che ciò che mostro possa diventare una fonte di frustrazione per chi guarda. Dal punto di vista pubblico, come attori abbiamo delle responsabilità. Se sei così fedele al tuo lavoro, se il tuo compito è quello di raccontare delle storie, è molto importante tutto questo. Spero che nulla della mia vita privata possa essere così influente da far passare in secondo piano il mio lavoro. Voglio che il mio mestiere venga sempre prima e che la mia vita privata resti sempre al di fuori.