Intervista a Federica Biondi, regista e sceneggiatrice de La ballata dei gusci infranti, dal 31 marzo al cinema
La ballata dei gusci infranti: dal 31 marzo al cinema il film di Federica Biondi fra legami, perdita e identità
In occasione dell’uscita al cinema de La ballata dei gusci infranti, dal 31 marzo in sala, FilmPost incontra la regista Federica Biondi. “Tutti abbiamo perso qualcosa” recita la tagline de La ballata dei gusci infranti, film scritto – con David Miliozzi e Jonathan Arpetti – e diretto da Federica Biondi, regista e sceneggiatrice marchigiana di Jesi. Ruota attorno ai concetti di perdita, di legami, di identità e di rinascita il film di Federica Biondi, che ha voluto declinare il suo racconto – nella forma di una ballata – attraverso quattro storie con le radici nelle Marche ma un respiro e un’intenzione universali. Quattro storie ambientate ai piedi dei Monti Sibillini, quattro destini legati dal tragico evento del terremoto del 2016. Quattro nuclei in un’antologia a cui fare da “collante” c’è la figura del matto del villaggio, Jacopo, interpretato da Samuele Sbrighi.
Nel cast, accanto a Sbrighi, Simone Riccioni (anche produttore), Caterina Shulha, Paola Lavini, Miloud Mourad Benamara, Barbara Enrichi, Lina Sastri e Giorgio Colangeli. Federica Biondi ha raccontato a FilmPost della genesi del suo primo lungometraggio, in una chiacchierata ad ampio spettro sul mestiere del Cinema a tutto tondo e sul valore che ha questo mezzo straordinario – questa forma di linguaggio – di suscitare riflessioni, di arricchire ed aprire nuovi orizzonti.
Intervista a Federica Biondi, regista e sceneggiatrice de La ballata dei gusci infranti
Sono molto curiosa di vedere il film, trovo che sia uno spunto molto interessante e ho avuto fin dal trailer l’impressione che si tratti di una storia che sia sì radicata al tuo territorio, ma che parli anche un linguaggio universale.
Mi fa piacere. Chi è marchigiano e poi fa cinema nelle Marche si prende l’etichetta di “cinema marchigiano”, come una cosa di serie B, una comunicazione locale e limitata. Io sinceramente cerco di raccontare storie che aggancino un pubblico esteso, oltre i confini ma i confini non devono rappresentare dei limiti, semmai delle caratteristiche culturali da far conoscere. Mi fa piacere sperimentare quando posso. Stavolta ho preso spunto dalla poesia, la ballata nel titolo si riferisce proprio a una struttura di un componimento poetico a strofe con un ritornello e cioè è un film a episodi, tutti episodi a se stanti, intrecciati solo perché hanno un minimo comun denominatore: il giorno del terremoto.
Anche il matto del villaggio è un punto in comune perché attraversa in varia misura tutte le storie. È Jacopo infatti che disegna l’ampio raggio di territorio, che non nominiamo mai, siamo sotto i Sibillini ma è un paesaggio molto universale. Samuele Sbrighi ha interpretato Jacopo in maniera molto originale, senza per forza dover assomigliare a qualcuno, è un attore eccezionale, presenta un personaggio divertente e commovente, una dualità che amo molto vedere al cinema.
Come nasce il progetto de La ballata dei gusci infranti?
Siamo partiti da una storia di un libro, per un episodio commissionato su richiesta, e da lì abbiamo pensato di farne altre di storie. Abbiamo pensato a quali storie potessero essere interessanti, che rappresentassero non solo il territorio, non solo quel tipo di evento, ma che fossero la rappresentazione di un grande campione. Ci sono delle riflessioni sul rapporto che abbiamo con la comunità e la fede nell’episodio con Miloud Mourad Benamara, dove la fede diventa una scelta di vita, come l’arte per Alba e Dante diventa una scelta di vita, la natura diventa scelta di vita per Lucia. E infine Elisabetta e David che rappresentano l’ambito delle relazioni di coppia e dei figli.
Quindi c’è anche il contrasto tra tutte queste scelte di vita che diventano totalizzanti, distrutte o modificate all’improvviso da qualcosa che tutto è tranne una scelta, cioè un evento inaspettato che ti coglie completamente smarrito e impotente e non sai cosa fare se non impazzire o farti divorare dalla rabbia, finché non capisci che arriverà non solo un istinto di sopravvivenza a portarti verso una via di uscita ma anche, se hai ancora le forze, un istinto di umanità con cui sarai in grado di salvare in qualche modo anche gli altri.
Si può dire che La ballata dei gusci infranti parli di perdita, di legami, di solidarietà e di rinascita. Com’è stato girare in un periodo così particolare e difficile, nel pieno di una crisi che ha colpito duramente il mondo della cultura e dello spettacolo? Le storie del tuo film possono essere lette come un messaggio da estendere anche all’attualità?
Assolutamente sì, perché la perdita ti apre una porta a qualcosa di totalmente nuovo. Perdere qualche cosa è un punto zero, tutti abbiamo perso qualcosa. I casi più forti e impattanti nella vita riguardano perdite. Sicuramente (il terremoto, n.d.r.) è un evento che come il Covid, la guerra, l’immigrazione hanno a che fare con il dolore indicibile di doversi staccare dagli affetti, da qualcosa e qualcuno a cui sentiamo di appartenere, nell’obbligo di doversi reinventare, di ricominciare da capo convivendo con la fatica e il dolore.
Con Miloud Benamara sul set ci sono stati dei momenti emotivamente durissimi. Lui interpreta Don Ghali, un parroco straniero, uno che ha dovuto imparare a lasciare andare. Il dolore è sempre uguale e anzi si addiziona nel tempo. Anche quando hai la possibilità di scegliere, fai sacrifici e rinunce ed è sempre sconvolgente. La speranza che passa dal film è che si riesca a superare il senso di perdita recuperando dentro di sé quello che abbiamo ricevuto nell’arco della nostra vita. In Italia il mondo dello spettacolo è visto prevalentemente come un mondo fantastico e non necessario, “gli artisti servono a farci divertire” secondo l’opinione generale, quindi è il primo a soffrire in tempi difficili, per non dire drammatici. La cultura da noi diventa spesso un concetto di nicchia. Diciamo che è incompresa. Eppure l’arte aiuterebbe nei momenti come questi perché crea alternative, chiarifica, aiuta a vedere gli altri e alla comprensione di noi stessi.
Il bello del cinema sta anche nel fatto che ognuno riceva dal film, o legga nel film, qualcosa di legato alla propria esperienza.
Decisamente. A me piace parlare di emozioni, proponendo un punto di osservazione su cui potermi confrontare con il pubblico. Ognuno di noi, sono sicura, vedrà il film in maniera diversa e sentirà qualcosa di diverso, magari rivedendosi maggiormente in uno dei tanti personaggi, ed è un tentativo di andare a cercare dentro chiunque, nel pubblico, qualcosa che possa interrogarlo.
A cosa fa riferimento la metafora dei gusci infranti?
Il guscio è inteso come concetto identitario del rifugio. Il terremoto ha infranto il guscio, le certezze, quel senso di protezione che dà la casa, e tutti noi arriviamo ad identificarci con il posto in cui viviamo. La vita ci obbliga a lasciare andare, che sia un luogo o un affetto, è una sua legge. Di fronte a eventi sconvolgenti la grande sfida è riuscire a non perdere se stessi e allora basta guardarsi indietro. Ognuno di noi deve dare valore alla propria storia.
Com’è stato girare nei territori attorno al tuo paese di origine e in particolare quali soluzioni stilistiche hai adottato per restituire agli spettatori l’essenza del paesaggio marchigiano?
Abbiamo scelto posti non chiaramente marchigiani, perché poi le Marche sono molto quello che non si conosce. Abbiamo cercato di farlo vedere con occhi nuovi, come si dovrebbe guardare un po’ tutto quello che è intorno a noi, con quegli occhi lì, senza cercare quello che è già conosciuto. Io non sono della provincia colpita dal terremoto, sono di Jesi nella provincia di Ancona e il terremoto l’ho sentito marginalmente ma è stato più che sufficiente per avere paura ogni volta che, anche oggi, sento tremare qualcosa. I marchigiani sono molto accoglienti, molto puri. È bello avere un rapporto così diretto, genuino, così aperto senza tante formalità. Anche i personaggi sono così, per esempio Lucia (Paola Lavini) è una che non te le manda a dire.
Qual è stato il rapporto con il cast, proprio lo scambio a livello personale? Cosa ti sei portata a casa di ciascuno di loro e in particolare di attori del calibro di Lina Sastri e Giorgio Colangeli?
Con enorme piacere ho visto con quanta passione e lealtà hanno lavorato con una regista che non conoscevano e di cui si dovevano fidare. Quindi mi porto a casa sicuramente la grande fiducia che ho ricevuto e il confronto che abbiamo avuto. Io adoro lavorare con gli attori, costruire con loro il personaggio.
Quindi ciascun attore ha messo parte di sé nel personaggio, anche nel processo di costruzione, in divenire, degli stessi personaggi?
Sicuramente, perché loro in primis devono essere convinti di quello che fanno, per cui se non si sentono in linea è un grosso problema. Io e gli altri due sceneggiatori, mentre scrivevamo la storia di Alba, pensavamo a Lina Sastri. Lei è una donna di teatro così appassionata, capace oltretutto di restituire una forte sensazione del dolore. A lei abbiamo affidato parole molto forti da dire e da sentire. Anche Caterina Shulha l’ho trovata perfetta per il ruolo di Elisabetta, lei è dotata di quella aura divina, luminosa, che hanno tutte le madri, capaci di trasmettere conforto e serenità anche nelle situazioni estreme e non perdono mai il controllo. Ma devo dire che tutti hanno dato moltissimo ai personaggi, li hanno resi davvero belli.
Federica Biondi: l’arte di raccontare e il bisogno di comunicare attraverso il Cinema
Parlando di te, invece, come ti sei avvicinata al mondo del cinema. Quando hai capito che volevi fare la regista?
Quando mi sono avvicinata al montaggio dopo aver scritto le prime sceneggiature. Ho studiato Scienze della Comunicazione e uscita da lì sono entrata subito nei set, ho scritto sceneggiature per corti e docu-fiction, ho cominciato a fare l’assistente di montaggio per i video delle opere liriche. Poi sai quando un direttore d’orchestra prima di diventare direttore si avvicina ad uno strumento, poi ne vuole conoscere un altro e poi ancora un altro? È stata proprio una curiosità di vedere e sentire il Cinema a tutto tondo.
E poi sono stata ispirata da un personaggio in particolare, Barbra Streisand, che appartiene a più mondi, diciamo che è lei che mi ha mosso verso il cinema. Mi ricordo addirittura la data in cui la Rai ha trasmesso il concentro. È una cantante che è sempre piaciuta molto a mia mamma. Io all’epoca registravo tutto e mi riportavo tutto dalla videocassetta alla cassetta. E quel concerto lo avevo imparato a memoria, non solo le canzoni ma anche le parti in cui parla e racconta tutto di sé, leggendo la sua storia di artista dai film alle sue canzoni con una coerenza e un’armonia di contenuti geniali. Una donna totale, attrice, cantante, regista, produttrice. Una gande rappresentanza della donna nel mondo dello spettacolo.
Il cinema contemporaneo è ricco di voci femminili forti sia dietro che davanti la macchina da presa. Sono curiosa di sapere chi sono le tue registe preferite.
Non so se ho una regista preferita. Amo gran parte del cinema statunitense e quello scandinavo. Jane Campion mi piace tanto, a partire da Lezioni di piano che è un capolavoro come Corpo e anima di Ildikò Enyedi. Però diciamo che apprezzo in tutte le registe un binomio particolare che è la coesistenza di una grandissima delicatezza e una grandissima crudeltà, crudezza proprio. E trovo dei contrasti sempre molto interessanti.
Com’è cambiato negli anni il tuo modo di esprimerti sia come sceneggiatrice che come regista?
Vengo sempre più attratta da storie personali di cui si ha pudore, i sentimenti che si temono, le emozioni che si trattengono, tutto quello che non si dice perché non riusciamo a dirlo nemmeno a noi stessi. Con Vicini, il mio primo cortometraggio con Fabrizio Ferracane, Barbara Ronchi e Fabrizia Sacchi ho preso questo argomento di petto. Io ho bisogno di sentirla forte la sceneggiatura, come un qualcosa che mi riguarda. Sono una persona molto sensibile, un po’ come i gatti, ho un udito sottile e osservo tantissimo, sono piuttosto silenziosa e molto riflessiva, ho bisogno di sentire la storia sulla pelle e preferisco, o forse ho bisogno di comunicare così, con il cinema piuttosto che a voce.
Che tipo di spettatrice sei, cosa ti piace guardare al cinema e in streaming? E qual è l’ultimo film che hai visto?
L’ultimo film che ho visto è La donna elettrica, su MUBI, e mi è piaciuto tantissimo. Guardo anche le serie, l’ultima che ho visto è Scene da un matrimonio con Jessica Chastain e Oscar Isaac, stupendo. Mi piacciono i drammi raffinati ma anche le commedie intelligenti, come Harry ti presento Sally, i film scritti o diretti da Nora Ephron, che riesce a mettere tutto nelle storie, dal riso al pianto. Un film che non è suo ma per lo stesso motivo trovo geniale è Fiori d’acciaio. Insomma chi ti fa ridere e piangere agli estremi. Ho adorato anche lavori poetici come The Reader, The Hours, In The Mood For Love, ma ce ne sono tantissimi e non mi fermerei a pochi generi.
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