Pistol: recensione della miniserie di Danny Boyle sui Sex Pistols
Una serie che ragiona su una generazione di disadattati e invisibili
Per festeggiare il Disney Plus Day dell’8 settembre, la piattaforma si arricchisce di molteplici titoli tra cui Pistol, la miniserie in sei parti creata da Craig Pearce (Romeo + Juliet, Moulin Rouge!) e diretta da Danny Boyle (Trainspotting, Steve Jobs).
Boyle, già avvezzo nei biopic , si impegna nel portare un progetto ambizioso che unisce la storia di una delle band che ha cambiato in pochissimo tempo l’intero panorama musicale con un’interessante sfondo storico.
La serie è ispirata all’autobiografia del chitarrista Steve Jones intitolata Lonely Boy: Tales from a Sex Pistol. Un biopic che non è stato voluto da alcuni dei membri della band storica: in particolare John Lyndon ha tentato di bloccare legalmente la produzione della serie, cercando di impedire di far utilizzare i loro brani.
Indice
- Gli outsider nell’Inghilterra degli anni Settanta
- Lati tecnici
- I personaggi femminili
- In conclusione
Gli outsider nell’Inghilterra degli anni Settanta – Pistol, la recensione
Pistol è la voce di una generazione dimenticata che non riesce a vedere un futuro. Un spaccato che mette in luce la vita dei giovani nella turbolenta Inghilterra degli anni Settanta che non vogliono continuare a seguire le rigide regole sociali a loro imposti da autorità e istituzioni, che non vogliono vivere la vita dei loro genitori, ma che pretendono di costruire una strada da esplorare che sia creata per loro. Per incanalare queste tematiche, Danny Boyle racconta la breve ma intensa carriera dei Sex Pistols, dal momento della loro fondazione fino alla triste dipartita di Sid Vicious che ha segnato lo sciogliersi della band.
I componenti sono degli outsider, considerati dei disadattati e dei veri e propri freaks nullafacenti dall’intera società. Steve Jones è il fulcro principale da cui la storia nasce, colui che fa muovere i primi passi verso una consapevolezza diversa dettata dalla necessità di allontanarsi dalla sua famiglia abusiva, soprattutto da un padre che ha fatto della violenza (fisica, sessuale e psicologica) la quotidianità del figlio. La band rifiuta qualsiasi tipo di legame tradizionale, le istituzioni diventano una presa in giro: dalla critica mainstream che non capisce la loro musica o il concetto da cui essa nasce, dal matrimonio stesso visto come un semplice e utile contratto.
Lati tecnici – Pistol, la recensione
Pistol parte dalla storia personale di Steve Jones per poi espandersi e raggruppare in appena sei episodi la formazione della band, i litigi e le dinamiche interne al gruppo e con il manager Malcom, il proprietario di un sexy shop assieme a sua moglie Dame Vivienne Isabel Swire, in arte Vivienne Westwood. La successiva metamorfosi della band e i valori che sono sempre stati una loro prerogativa, veicolati da una musica rumorosa e sopra le righe fino all’arrivo negli Stati Uniti e all’inevitabile fine del gruppo. Boyle mette in scena la storia dei Sex Pistols accompagnandola ad una regia oscura e ad una fotografia sporca che immediatamente ci proietta nella metà degli anni Settanta.
Un lungo videoclip di quell’epoca, a partire anche dal formato, che incanta lo spettatore, cercando di fargli vivere tutte le contraddizioni di quegli anni che, purtroppo però, non vengono approfondite a sufficienza. Pistol è una serie interessante, ma che aveva bisogno di più spazio per raccontare la storia della band che, in meno di cinque anni, hanno rivoluzionato il panorama della musica punk nel mondo. Pistol è un progetto ambizioso che avrebbe voluto usare a suo favore le iconicità della band per raccontare – nel bene e nel male – lo spaccato storico in cui i Sex Pistols sono nati e si sono evoluti.
I personaggi femminili – Pistol, la recensione
Le icone imprescindibili di quegli anni fanno la loro comparsa sotto forma di personaggi e di fantasmi ispiranti – è il caso di Bowie, dei litigi sulla fama de I Beatles, i Pink Floyd – a cui viene concesso troppo poco spazio.
Un’Inghilterra smossa da profondi cambiamenti che diventa solo uno sfondo sfocato. La stessa fine che fanno i personaggi femminili, che a tratti incarnano un altro punto di vista che viene trascurato. È un peccato anche per le attrici che fanno, invece, un ottimo lavoro e riescono a valorizzare le loro parti anche quando sono ridotte all’osso in una sceneggiatura a tratti frettolosa. È il caso di Pamela Rooke, interpretata da un’irriconoscibile Maisie Williams al suo massimo.
Williams regala una performance in perfetto stile punk, eccessiva e sopra le righe. Oltre a Pamela Rooke che viene ridotta ad un semplice personaggio marginale non inglobato con la storia, a Vivienne Westwood (interpretata da Talulah Riley) è destinata la storyline peggiore. La famosa stilista, in Pistol, è ridotta a una macchietta, ad una moglie sottomessa dal marito che nel suo salotto ricava magliette con dei timbri casalinghi. Il personaggio iconico di Westwood non viene approfondito e, se non si conoscono le dinamiche di quegli anni, il suo supporto fondamentale per la band di cui ha studiato l’immagine e la sua importanza nella scena underground britannica non viene fuori.
In conclusione – Pistol, la recensione
Il fascino trasandato di una Londra del 1975 non riesce mai a raggiungere il suo apice e Pistol rimane una miniserie le cui alte aspettative vengono in parte deluse. La regia richiama i videoclip grezzi di quel periodo, ma è soprattutto le performance degli attori ad essere il vero asso della manica della serie. Ogni attore si concede di esagerare, di andare sempre oltre senza mai risultare fuori posto. Le dinamiche vengono aguzzate, le personalità diventano più taglienti, ma non sono supportate dalla sceneggiatura che, in fretta, perde il punto focale.
La serie Pistol voleva essere un biopic che utilizza la storia personale dei suoi protagonisti per fare un ritratto di una società che stava cambiando, di alcuni bisogni di una generazione ignorata che stavano diventando impellenti con degli outsider che erano stanchi di essere denigrati, ma che fanno del loro essere emarginati il loro punto di forza. Una voce che Pistol non riesce a seguire del tutto, non facendo della vocazione della band una sua prerogativa.
Pistol
Voto - 7
7
Lati positivi
- La regia che ricorda i videoclip di quel periodo e una fotografia sporca
- La performance deli attori è brillante e sopra le righe
Lati negativi
- La sceneggiatura non riesce a supportare le forti personalità che mette in scena