Saint Omer: recensione del film di Alice Diop – Venezia 79
Un film-processo, colto, che all’indagine processuale accosta un’indagine della psiche, per interrogarsi con profondità sui dilemmi della maternità e dell’infanticidio
Visto in anteprima alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, alla sua 79ª edizione, Saint Omer è il film della regista francese Alice Diop di cui vi presentiamo la recensione in questo articolo. Si tratta del primo film di finzione della regista, nata in Francia e di origini senegalesi. Alice Diop viene dal documentario (tra i suoi lavori Vers la tendresse, premiato alla 42ª edizione dei César) e in Saint Omer si vede: la vicenda raccontata, infatti, trae spunto da un vero fatto di cronaca e da un vero processo (cominciato nel 2016), quello che vide in aula Fabienne Kabou. La donna, francese di origini senegalesi, era responsabile di aver deposto la bimba Adélaïde, che dormiva, sulla spiaggia di Berck-sur-Mer, mentre la marea saliva, provocando così il decesso per annegamento, il giorno dopo.
Se il fatto di cronaca è un infanticidio, il processo verte invece non tanto sull’accertamento dei fatti, quanto sulla lucidità o meno dell’imputata, la quale, dopo aver confessato, disse alla polizia di essere stata influenzata dal malocchio e da maledizioni lanciate su di lei da alcune sue zie in Senegal. Da documentarista la regista Alice Diop, che ha seguito il processo, ha deciso di adattare questa vicenda unendo la realtà con la finzione per rievocare sulla scena quanto da lei stessa vissuto nel seguire la complessa vicenda. In Saint Omer, titolo del film e luogo in cui si è tenuto realmente il processo, quindi, si mette in scena un caso giudiziario e il suo svolgimento in aula. Un caso, che partendo da fatti reali, migra però in contesti differenti, ben più profondi e dalle complesse sfumature. Cambiano i nomi rispetto alla vicenda che, fedelmente ricostruita (con perizia documentaristica nel rappresentare il reale). si tinge di nuovi sguardi di donne, che si pongono impellenti domande su se stesse.
Indice:
- Una vero processo, un’indagine da documentario
- Donne Fantasma, chimere e specchi riflettenti
- Medea o non Medea? Questo è il dilemma
Una vero processo, un’indagine da documentario – Saint Omer recensione
Perché una donna colta e intelligente, che nei primi anni di vita della figlia si è presa amorevolmente cura della bimba, dovrebbe commettere un atto come l’infanticidio? Era consapevole di ciò che faceva? Queste le domande di apertura del processo, le stesse che nel film Saint Omer, muovono la scrittrice Rama (Guslagie Malanga) a seguire il caso, per scrivere un articolo e raccogliere idee su questa nuova “affascinante Medea” (che nella tragedia greca uccise i suoi figli). Ben presto Rama sarà sempre più invischiata nella complessa personalità dell’imputata Laurence Coly (interpretata da Valérie Dréville e ispirata alla figura di Fabienne Kabou), al punto da non saper più distinguere se stessa da quella donna e dai fantasmi del suo passato. La trama ha questo incipit e sembra indirizzare la pellicola non tanto verso il legal thriller, quanto sulla ricostruzione puntuale di un processo in aula attraverso la verosimiglianza e il rigore scenico.
La macchina da presa è fissa sugli attori, viene usata come una lente. Nello stile scenografico di Dreyer (La passione di Giovanna D’arco, 1922) la composizione scenica è asciutta e plastica, classicheggiante, con gli attori che si muovono al minimo e appaiono simili a statue parlanti, che dominano sullo spettatore con tutta la loro duplicità. La regista sfrutta a piene mani il materiale casistico di partenza, attraverso una rappresentazione che ricorda molto la messa in scena teatrale. Ad essere indagati, dal giudice in aula, non sono tanto i fatti, quanto le persone. In particolare viene posto l’accento sulla loro responsabilità nei confronti della bambina, una figlia occultata, nascosta sia dal padre che dalla madre, “oscura” come il titolo del film di Maggie Gyllenhaal (La figlia oscura, premiato come Miglior sceneggiatura a Venezia 2021). L’indagine documentaristica permette alla regista di costruire dei personaggi a tutto tondo, per questo, molto verosimili.
Donne Fantasma, chimere e specchi riflettenti – Saint Omer recensione
A questa verosimiglianza però si aggiunge qualcos’altro. Più o meno a metà di Saint Omer, infatti, emerge un elemento ansiogeno, paranoico e irrazionale che la regista sa ben rappresentare visivamente attraverso una potente deflagrazione di sguardi e di musica sospirante, ritmica e ipnotica, che sembra scaturire proprio dal malocchio vudù africano. Queste crisi violente di panico e disorientamento portano Rama, la scrittrice, a legarsi mentalmente con la donna responsabile dell’infanticidio: c’è un filo minaccioso e tenebroso che le lega. Saint Omer è un film molto parlato ma ciò che conta di più sono in realtà gli sguardi. Essi sono in grado di evocare una memoria sovrapposta, di più donne, che condividono un’oscurità comune. Come in La figlia oscura, le situazioni cambiano, ma le similitudini restano. Sono specchi deformanti che rimandano però ad una stessa immagine distorta: quella di donne fantasma, che vorrebbero nascondersi, alle prese con la difficoltà di accettare di essere madri.
La non scontatezza della maternità è un tema scomodo, che coraggiosamente è stato trattato ultimamente da alcune pellicole: quella già citata, da Saint Omer, e, in questa stessa edizione del Festival, da Stonewalling, film acuto, verosimile e tagliente di Huang Ji e Ryuji Otsuka, presentato alle Giornate degli Autori. Essere madri non è così innato come si potrebbe ingenuamente pensare: si tratta di un dono, ma anche di un fardello; di una connessione e commistione intima tra madre e figlio. Citando una delle parti più belle del film Saint Omer, potremmo dire che si tratta di un “rapporto tra chimere”, tra creature in divenire che dalle loro madri prendono il latte e che condividono chimicamente anche la loro più segreta essenza. A loro, ai figli, però sta il libero arbitrio di saper riconoscere la propria autonoma, unica e irripetibile natura.
Medea o non Medea? Questo è il dilemma – Saint Omer recensione
La regia di Alice Diop – nella sua essenzialità e scenografia classica, con fotografia lucida, i cui luoghi di ambientazione sono per lo più aule del tribunale, aule scolastiche – richiama la tragedia di Medea (con tanto di meta citazione Pasoliniana). L’abile e pedante indagine sui personaggi costruita nel primo tempo della pellicola permette, nella seconda metà di apprezzare la deriva a tratti irrazionale, che è il vero tema del film. Non ci sono verità preconfezionate, non ci sono giudizi preconfezionati, ma c’è l’intento di comprendere e condividere un dolore sottile, la folle sofferenza di Medea. Grande merito va agli interpreti, inchiodati dalla camera della regista, che non possono nascondersi, devono mostrare le loro ombre. Ben quattro madri si confrontano tra loro nel film. Medea o non Medea, questo è il dilemma… La regista si pone il quesito scomodo che nessuno vorrebbe porsi. Lo fa con personaggi veri, non legati al dramma delle tragedie greche.
Come altri registi francesi, tra cui Ladj Ly (con I Miserabili) e alla 79ª edizione Romain Garvas con il suo Athena, Alice Diop, in Saint Omer riprende gli archetipi letterari per riproporli ai giorni nostri e farsi domande sulla realtà che ci circonda. Film dalla sceneggiatura sottile, piena, incisiva, Saint Omer muove con un linguaggio colto e con coraggio dei fili delicati, spesso nascosti, affrontando un tema che gradualmente sta venendo sempre più alla luce, grazie al cinema. Difetti del film? L’abbondanza di linguaggio, per quanto concreta e documentaristica del processo, potrebbe, soprattutto nella prima metà, risultare pedante per alcuni spettatori. Il finale, poi, diventa a tratti troppo enfatico rispetto a quanto visto in precedenza: il messaggio per cui il legame di sangue non ci definisce fino in fondo, poteva essere costruito con scene più evocative e potenti. Questo cambio di stile stona un po’ con il resto.
Voto - 8
8
Lati positivi
- Impianto teatrale, al livello scenico e di sceneggiatura
- Ottimi dialoghi, personaggi molto verosimili
- Sottile e acuta riflessione sulle contraddizioni della maternità
Lati negativi
- Finale troppo enfatico