Kai, l’autostoppista con l’accetta: recensione del doc true crime di Netflix
L'inquietante documentario firmato Netflix è il resoconto di una storia tanto assurda quanto emblematica sulla costruzione di un fenomeno virale
Disponibile da ieri su Netflix, Kai, l’autostoppista con l’accetta (The Hatchet Wielding Hitchhiker, in originale) di Colette Camden, è il nuovo documentario true crime della piattaforma. Una storia incredibile su un personaggio altrettanto assurdo che nel 2013, nel giro di tre mesi, passò dall’essere un fenomeno virale al principale sospettato di un omicidio. Il racconto perfetto, insomma, per Netflix e la sua offerta, divenute nel frattempo un punto di riferimento per prodotti di questo tipo, documentari e docuserie capaci di coniugare cronaca e intrattenimento, spettacolo e riflessioni (non troppo banali) sulla società statunitense.
A metà strada tra L’uomo più odiato di internet e Tiger King, Kai, l’autostoppista con l’accetta, si fa così perfetto continuatore di questa tendenza. Un documentario capace da una parte di unire mondi diversi (la storia di un fenomeno mediatico e quella di un crimine) dall’altra di portare avanti – anche in maniera non del tutto consapevole o compiuta – una riflessione sul mondo dello spettacolo e sul suo cinismo.
Indice:
Trama – Kai l’autostoppista con l’accetta recensione
“Smash, smash, smash!”. Bastano i pochi minuti di un’intervista straniante concessa a una tv locale per fare del giovane senzatetto Kai (all’anagrafe Caleb McGilvary) una celebrità di internet. Il ragazzo ha infatti appena sventato un tentato omicidio da parte di uno squilibrato razzista, colpendolo ripetutamente con la sua accetta (!), e ora sta raccontando alla telecamera la sua colorata versione dei fatti, tra digressioni e commenti fuori luogo. È l’inizio della leggenda dell’autostoppista con l’accetta, da quel momento conteso da giornalisti e produttori televisivi, affascinati dal suo carisma e dal suo stile di vita senza regole.
Dai meme su internet fino all’ospitata da Jimmy Kimmel, passando per il progetto di farne un personaggio da reality sulla scia di Al passo coi Kardashian, il futuro di quel vagabondo con la fissa per il surf e la chitarra sembra essere più che promettente. Nessuno pare dare eccessivo peso alle sue uscite spiazzanti o al suo comportamento scostante e imprevedibile. Così come pochi sembrano accorgersi del lato oscuro e violento che quell’hippy nasconde dietro a un’apparenza calma e pacifica. Ma quando la situazione precipiterà, prendendo svolte drammatiche, nessuno potrà dirsi veramente sorpreso. O del tutto innocente.
Un eroe a misura di meme
Parte e si conclude con un crimine, la breve e folgorante parabola del giovane Kai, l’autostoppista con l’accetta. Un aspetto non casuale che, sin da quella prima esperienza sotto i riflettori, avrebbe dovuto far suonare più di un campanello d’allarme nella testa di chi invece era già convinto di aver trovato l’ennesimo eroe dell’internet. È proprio questa necessità tutta contemporanea di trovare a ogni costo un nuovo fenomeno virale da gettare in pasto al pubblico a essere al centro del documentario di Colette Camden.
Kai, con la sua storia assurda, i suoi comportamenti sopra le righe e quella scintilla di (innocua?) follia nello sguardo è infatti l’eroe perfetto del suo tempo. Un eroe da subito trasformato in meme, a metà strada tra la genuinità dell’uomo comune e il fenomeno da baraccone. Non c’è grande distinzione, del resto, tra le due cose nella società dello spettacolo. Un mondo pronto a fagocitare qualsiasi cosa possa essere anche solo vagamente redditizia, senza porsi interrogativi o problemi morali di sorta. Decidendo di vedere solo quello che conviene e ignorando tutto il resto.
Tra Joker e il true crime
“Se vuoi glorificare qualcuno devi sapere chi stai glorificando”, viene detto nel corso del documentario. È questa la responsabilità che nessuno in questa storia ha avuto il coraggio di prendersi. Ne l’universo tritatutto di internet, ne i mezzi di informazione ne, soprattutto, il mondo dell’intrattenimento, miope e superficiale nei confronti di una realtà che ignorava o che, in definitiva, non gli interessava affatto.
In questo modo, Kai si rivela essere anche un documentario che, tra le righe, dice molto sulla società americana e sul suo rapporto col diverso e l’emarginato. Un’entità quasi astratta vista ora come alieno o invisibile, ora come caso umano da sfruttare a proprio vantaggio. Più vicino in questo al Joker di Todd Phillips che agli altri doc true crime della piattaforma, il film di Camden restituisce così la fotografia di un mondo, quello dei media, affamato e senza scrupoli, ossessionato dal fare del disagio un circo, scegliendo eroi effimeri da esaltare o irridere a seconda dei casi.
Un’occasione mancata?
Forte della sua natura ibrida, intento – tra immagini di repertorio, testimonianze dirette, stralci di comparsate televisive ed estratti social – a sviscerare tanto il fenomeno mediatico quanto l’aspetto cronachistico e investigativo della vicenda, Kai, l’autostoppista con l’accetta, è un nuovo, interessante tassello nel catalogo Netflix dedicato ai documentari true crime. Eppure, proprio nel ritratto dei media che comincia ad abbozzare, si può scorgere il germe di quello che sarebbe potuto essere se solo fosse stato più incisivo e più deciso ad ampliare maggiormente il discorso.
Ciò che resta è un documentario convincente, a cui basta la natura intrinsecamente inquietante dei fatti raccontati per risultare interessante. Un’operazione che però non sempre riesce a tenersi lontana da un interesse morboso per il personaggio che, a più riprese, rischia di farla cadere dentro quegli stessi meccanismi spettacolari e cinici che dovrebbe condannare. Quasi a dirci, indirettamente, che la nostra fame di “eroi” è sempre dietro l’angolo, tanto inesauribile quanto miope, ottusa ed egoista.
Kai, l'autostoppista con l'accetta
Voto - 6.5
6.5
Lati positivi
- Il documentario sa raccontare in maniera esaustiva una storia tanto assurda quanto esemplare
Lati negativi
- La critica ai media e al loro modo disinvolto di creare miti effimeri su personaggi fragili o pericolosi sarebbe potuta essere più esplicita e incisiva