La zona d’interesse, analisi del film di Jonathan Glazer: l’ispirazione, i simbolismi, il messaggio
L'ispirazione, i simbolismi, il messaggio e la spiegazione del finale de La zona d'interesse di Jonathan Glazer, candidato a cinque premi Oscar
Candidato a cinque premi Oscar tra cui Miglior film e Miglior regia, La zona d’interesse è uno dei film più importanti dell’anno e certamente tra i più significativi degli ultimi tempi. Alfonso Cuarón ne ha parlato come del film «più importante del secolo» ed è sicuramente il film del momento, perfettamente inserito nella contemporaneità. Diretto da Jonathan Glazer e con protagonisti Christian Friedel e Sandra Hüller, La zona d’interesse non è solo un film sull’Olocausto, solo un film sulla famiglia del comandante del campo di concentramento di Auschwitz Rudolf Höss. È un film che riflette sulla violenza insita nell’essere umano, ambientato nel 1943 ma che parla a noi e di noi, per riprendere le parole del regista, un film che non racconta i nazisti come “anomalie”, ma come specchio terribile in cui – come vedremo meglio nel corso della nostra analisi de La zona d’interesse – ciascuno può ritrovare un agghiacciante riflesso di se stesso. Vediamo qui di seguito l’ispirazione, i simbolismi, il messaggio e la spiegazione del finale de La zona d’interesse di Jonathan Glazer (qui la nostra recensione). Attenzione: da qui in poi seguono spoiler.
L’ispirazione e il romanzo di Martin Amis
La zona d’interesse è liberamente ispirato all’omonimo romanzo di Martin Amis del 2014. Liberamente perché il film di Jonathan Glazer parte da premesse piuttosto differenti e si discosta non poco dalla fonte letteraria. Il romanzo di Martin Amis è ambientato nella zona d’interesse di un campo di concentramento immaginario, con un comandante di nome Paul Doll, ispirato al vero comandante di Auschwitz Rudolf Höss. Anche qui l’orrore va in scena al di là del muro mentre la vita dei Doll scorre placida in una pacifica villetta, ma la storia si concentra su un ufficiale nazista che si innamora di Hannah Doll, la moglie dello spietato comandante del campo. Nel corso di un’intervista a Style Magazine, Glazer ha dichiarato di aver contemplato per anni l’idea di raccontare l’orrore dal punto di vista dei carnefici e di aver trovato nel romanzo di Amis il «permesso» di poter fare un film così rischioso.
Jonathan Glazer prende ispirazione dal romanzo di Martin Amis per concentrarsi sulla storia del comandante del campo e della sua famiglia, basando il suo protagonista sulla figura realmente esistita e chiamandolo Rudolf Höss, proprio come il vero comandante di Auschwitz. Sulla storia del comandante ma anche sulla sua famiglia, la sua casa, la sua vita quotidiana oltre il muro del campo. L’approccio scelto è allora ancor più realistico, legato alla Storia e Glazer plasma il suo film non solo a partire dal romanzo, ma ispirandosi alla vera storia della famiglia Höss, attingendo a documenti e materiali d’archivio. Nella messa in scena, nelle scenografie e nelle ricostruzioni degli ambienti, il realismo è massimo, massima l’attinenza al materiale di partenza. Basti pensare alla rigorosa ricostruzione della vera casa degli Höss, la villetta con la piscina, la serra, un orto rigoglioso e tanti fiori, adiacente a quel muro col filo spinato al di là del quale si consuma il genocidio.
Il punto di vista dei carnefici e l’azzeramento della finzione cinematografica – La zona d’interesse, analisi del film di Jonathan Glazer
Ospite alla 61ª edizione del New York Film Festival, Jonathan Glazer ha spiegato che la ragione che lo ha spinto ad adattare il romanzo di Martin Amis è stato il racconto dal punto di vista dei carnefici, una prospettiva davvero insolita e unica in un film sulla Shoah. «La prospettiva dei colpevoli, dei perpetratori. Quel punto di vista. Martin Amis ha scritto il romanzo ovviamente, ed è un romanzo profondamente affascinante che mi ha portato a risalire alle fonti. E facendo ciò sono rimasto estremamente colpito dalla vera famiglia Höss». Lo sterminio dal punto di vista dei perpetratori, una storia che ha al centro i carnefici e lascia le vittime al di là del muro anche se, come vedremo meglio più avanti, ciò che non vediamo è ben presente, ha un’importanza e un impatto fondamentali nell’economia della storia e nel veicolare il messaggio del film. E quel che va in scena nell’ambiente domestico degli Höss è girato con la ricerca del massimo realismo e rigore formale, con un azzeramento pressoché totale della finzione cinematografica. Sia per quanto riguarda la ricostruzione vera e propria degli interni sia nelle scelte registiche e di fotografia. Prendendo in prestito ancora una volta le parole del regista, La zona d’interesse è girato come una sorta di Grande Fratello.
Le macchine da presa fisse, collocate in diversi punti degli ambienti, non sono mai state manovrate durante le riprese, fatta eccezione per pochi movimenti di macchina laterali, e fisse sono anche le inquadrature: nessuno zoom, nessun cambio di messa a fuoco. Allo stesso modo anche i microfoni sono stati collocati in punti fissi sul set e anche la fotografia curata da Łukasz Żal non si avvale di alcun artificio aggiuntivo. Tutte queste scelte contribuiscono alla creazione dell’atmosfera più naturale possibile, più realistica, cruda ed essenziale. L’effetto è quello di un’immersione totale nella casa e nella vita degli Höss, che porta chi guarda a sentirsi parte di quel contesto, privo del rassicurante filtro che, semplificando, ci fa capire che siamo dentro un film.
Oltre il muro
Oltre il muro che segna il confine tra la casa degli Höss e Auschwitz è come se andasse in scena un altro film. Il fatto che durante la visione ci si senta così assorbiti e immersi nella vita della famiglia non solo non impedisce di sentire quel che accade al di là del muro, ma anzi ne enfatizza ed aumenta esponenzialmente l’effetto. Oltre quel muro ripreso nella sua terrificante imponenza in un paio di nitide, lente riprese laterali c’è tutto l’orrore, lontano eppure vicinissimo. Si sentono colpi di arma da fuoco, l’abbaiare in lontananza dei cani da guardia, le urla disperate dei deportati che chiedono invano pietà, i comandi gridati dagli ufficiali del campo.
Si vede il fumo dei corpi bruciati salire verso il cielo, che impregna l’aria, vediamo arrivare i treni carichi di prigionieri nel buio della notte squarciato solo dalle fiamme che si levano dai camini dei forni crematori così diligentemente messi a punto da Rudolf Höss. La dimensione del sonoro invade l’immagine e lo spazio, con ogni colpo e ogni grido che pur rimanendo egualmente distante ci sembra sempre più forte e sempre più vicino.
Il messaggio: La zona d’interesse è un film in cui «tutto è al servizio dello sguardo al presente»
«Tutto è al servizio dello sguardo al presente del film. Non volevo fare un film che facesse percepire una distanza di sicurezza da quegli eventi» sono le parole di Jonathan Glazer riguardo l’intento del film. Durante tutta la visione viene da chiedersi come sia possibile che Rudolf Höss e la sua famiglia riuscissero a vivere nella totale normalità e nell’assoluta indifferenza nei confronti dello sterminio che si stava compiendo (e che Rudolf in prima persona stava compiendo) al di là del loro giardino. La risposta è tanto semplice quanto raggelante: Rudolf Höss, così come tutti i nazisti, era convinto di essere dalla parte della ragione, stava eseguendo degli ordini, stava portando avanti il suo lavoro col massimo dell’efficienza possibile. Lo dice chiaramente Hedwig Höss: quello che sta facendo con la sua famiglia è mettere in pratica nel concreto il piano e l’ideale di Adolf Hitler dello spazio vitale ad Est. Ma in che modo La zona d’interesse parla a noi e, soprattutto, di noi? Tutto nel film è al servizio dell’idea di sottolineare come possano esserci dei parallelismi, tra noi e i carnefici e non tra noi e le vittime. Non nel senso che noi, che guardiamo e viviamo oggi, siamo uguali ai nazisti nel 1943, piuttosto che i nazisti erano esseri umani esattamente come noi.
Ed è così che sono rappresentati nel film: non come il simbolo del male assoluto, ma come esseri umani normali. Glazer cattura quindi l’umanità dei nazisti, naturalmente non con sguardo clemente, ma lucido e spaventosamente oggettivo. Quel che emerge è un ritratto forse ancor più terrificante e disturbante di quelli fatti in tante pietre miliari della storia del cinema dedicate al racconto della Shoah, che ci spinge a fare un esame di coscienza. Proprio come la famiglia Höss nel 1943 anche noi, oggi, normalizziamo le sofferenze che accadono al di fuori dei nostri confini, che spesso assorbiamo pigramente dietro lo schermo di uno smartphone o di un televisore. Seduti a tavola, magari chiacchierando piacevolmente, non prestiamo attenzione al servizio di un telegiornale in cui si parla di guerra e genocidio (il riferimento all’attualità è più che mai lampante), lasciando che le notizie diventino un rumore di sottofondo. Dietro lo schermo di uno smartphone diventiamo anestetizzati al dolore e, più o meno consapevolmente, indifferenti. Gli Höss, per quanto spregevoli, sono esseri umani. I nazisti, colpevoli del peggior genocidio della Storia, erano esseri umani. A tal proposito vale la pena riprendere per intero una dichiarazione rilasciata da Jonathan Glazer al New York Times.
Volevo cancellare l’idea che [i nazisti] fossero delle anomalie, quasi degli esseri sovrannaturali. Un’idea del tipo “sono arrivati dal nulla, fuori controllo, ma grazie al Cielo non hanno niente a che vedere con noi e una cosa del genere non succederà mai più”. Volevo mostrare come quei crimini siano stati commessi da persone comuni.
Le simbologie che spingono a guardare oltre – La zona d’interesse, analisi del film di Jonathan Glazer
L’attenzione estrema al sonoro nel film già di per sé ci porta a partecipare emotivamente a quello che accade al di là del muro del campo di concentramento, a percepire, attraverso il suono, quali atrocità si consumano oltre il giardino degli Höss. Ma vi è un altro elemento che contribuisce a ricordarci, con pari vigore, cosa la famiglia sta ignorando e cosa noi finiamo per ignorare nella vita di tutti i giorni. Nel film vi sono alcuni passaggi in cui lo schermo, con un taglio piuttosto brusco, diventa nero per secondi che paiono interminabili. Questi tagli hanno un significato ben preciso: lo schermo nero acquista un significato simbolico per spingerci a guardare nel profondo, nel buio dell’orrore, della morte e della tragedia che si sta consumando oltre il muro. Allo stesso modo vi sono un paio di dissolvenze altrettanto potenti in cui dalle immagini di vita quotidiana si passa a uno schermo rosso. Il rosso simboleggia la necessità del soffermarsi a pensare allo spargimento di sangue, alla cieca malvagità. Sono veri e propri indizi etici, un linguaggio che ci porta ad allontanarci con forza dalla sospensione della moralità che avviene sullo schermo.
Vi sono poi delle scene molto particolari, di una ragazza che nasconde delle mele in punti in cui i prigionieri possano trovarle, girate con la tecnica della fotografia termica. Immagini in negativo così stranianti che ci portano a domandarci se stiamo assistendo a un sogno o alla realtà. Non solo la ragazza in questione è reale, ma le sue scene sono parte integrante della visione di Jonathan Glazer. Glazer ha conosciuto la donna, Alexandra, che nel film vediamo da ragazza, quando aveva 90 anni e che gli ha raccontato la sua storia. Si tratta di una donna polacca, che da ragazzina lavorava in una miniera, che viveva nei pressi di Auschwitz e che all’epoca sentiva il bisogno di fare quello che era in suo potere per far del bene ai deportati. Ovvero lasciar loro del cibo di nascosto, durante la notte. Per Glazer quella ragazza è diventata il simbolo della bontà insita nell’animo umano, un’energia positiva, un faro di speranza in opposizione al male assoluto. «È davvero diventata la mia Stella Polare in ogni modo possibile mentre giravo il film» ha dichiarato lo stesso Glazer a Vanity Fair.
La spiegazione del finale
Sul finale de La zona d’interesse Rudolf Höss viene reintegrato nella sua posizione di comandante di Auschwitz dopo essere stato trasferito ed è messo a capo di un’operazione che dovrà portare 700.000 ebrei ungheresi nel campo di concentramento per essere sterminati. Siamo vicini al compimento della soluzione finale. Rudolf chiama la moglie per darle “la bella notizia” dopo aver partecipato a una sontuosa serata di gala. È fiero e orgoglioso: quel piano di morte è stato chiamato operazione Höss e lui ha passato la serata pensando a come metter in atto quel compito, immaginando come poter uccidere nella camera a gas un numero così enorme di persone. Per farlo immagina di dover riuscire a gasare tutte le persone presenti alla festa in una sola stanza.
Mentre sta lasciando la festa Höss scende una lunga scalinata e in due momenti deve fermarsi in preda alla nausea e ai conati di vomito. Che stia realizzando, nel profondo, che quello che ha fatto e che ancora deve fare è orribile e criminale? Tutt’altro. La nausea e i conati sono un riflesso fisiologico del corpo umano. La mente è completamente dissociata, Höss è fiero, certo di essere ricordato in futuro per la sua efficienza e dedizione. Il riflesso del corpo, coi conati che lo scuotono, è lì a dire che nonostante tutto un latente senso di naturale rifiuto e disgusto vive dentro di lui, nel profondo. Il corpo non può concedersi il lusso di dissociarsi, non può essere messo a tacere come la coscienza; il corpo che si ribella è la manifestazione dell’orrore che è dentro di lui, come le ceneri delle persone che ha attivamente contribuito a uccidere.
In assoluto il miglior film sulla Shoa che ho visto. Mai come in questo film lo spettatore riesce a capire cosa significhi un genocidio e come sia stato possibile, benché sia assente qualsiasi immagine di violenza e di straziante dolore. Forse proprio per questo, lasciando alla nostra percezione tutto l’orrore di una tragedia che si sta compiendo davanti a occhi e cuori indifferenti.