The Brutalist: recensione del film di Brady Corbet – Venezia 81

Tre ore e mezzo, in pellicola, VistaVision con tanto di ouverture ed intermission. Non sono gli anni 50' è il 2024. The Brutalist

La prima vera sorpresa del festival ce la regala Brady Corbet, nato e cresciuto in quel di Venezia (come regista si intende) dopo l’esordio in Orizzonti ed il passaggio in Concorso nel 2018, torna al Lido con The Brutalist, di cui vi proponiamo la recensione. Opera monstre di 3 ore e mezzo, girato in pellicola e formato Vista Vision in un richiamo al cinema come lo si faceva una volta con tanto di ouverture iniziale e intermezzo. Un progetto ambizioso, così come lo è il suo protagonista, e che vede l’ambizione come tema portante nel raccontare la storia di un artista alle prese con un’opera immensa, irrealizzabile quasi, come il film stesso.

Era infatti commosso Corbet durante la conferenza stampa per essere riuscito a presentare il suo lavoro dopo quasi 10 anni di lavorazione. Un film monumentale (la scelta di parole non è casuale) e il ritratto di un America spregevole, tutto il contrario di come vuole apparire. Interpretato da un grande Adrien Brody, affiancato da Felicity Jones e Guy Pearce, che finalmente torna al cinema in un ruolo alla sua altezza. 

the brutalist recensione

Brookstreet Pictures, Kaplan Morrison, Andrew Lauren Productions

Indice

Trama: una nuova vita – The Brutalist recensione

Nel 1947 l’architetto ebreo Laszlo Toth emigra dall’Ungheria negli Stati Uniti nella speranza di costruirsi una nuova vita, in attesa che anche moglie e nipote possano raggiungerlo. Nonostante il tanto decantato sogno americano, la vita è più difficile del previsto e l’artista si troverà davanti un paese che lo accoglie ma con disprezzo. Dapprima inizierà a lavorare come aiutante nella bottega del cugino, emigrato ormai da anni e talmente inserito nel paese da aver cambiato il proprio cognome. 

Anche lì purtroppo le cose non vanno nel verso giusto e l’architetto proverà a reinventarsi come operaio, conducendo una vita di povertà e lavorando duramente. Fortuna vuole che un ricco uomo d’affari nota una delle sue vecchie opere e dopo numerose ricerche riesce a scovarlo sporco di polvere in un cantiere. Fiducioso nelle sue potenzialità, il magnate gli offrirà di lavorare ad un progetto immenso che cambierà il corso dei successivi trent’anni della sua vita.

Il sogno americano – The Brutalist recensione

The Brutalist si apre con un’incredibile sequenza che riassume il viaggio del protagonista dall’Ungheria ed il suo arrivo nella terra promessa, luogo di sogni e libertà, l’America. Se non fosse che quando ci viene mostrata, la Statua della Libertà simbolo degli Stati Uniti, è al contrario, a testa in giù. Con questo inizio stupefacente Brady Corbet sembra dirci sin da subito cosa ci aspetterà durante la visione. Quella che sembra l’opportunità di una vita porterà il protagonista a scoprire la verità che si cela dietro la maschera, o dentro la statua che dir si voglia. La netta divisione del film è esemplare nel rappresentare i due volti dell’America.

La prima metà è quella più canonica narrativamente ed è la classica storia del perdente che si riscatta, un Rocky ante-litteram insomma. Sconfitto dalla guerra e senza un soldo bucato trova speranza grazie al magnate che scova la sua arte e gli da la possibilità di rifarsi. Il personaggio interpretato da Guy Pearce si fa quindi simbolo del paese tutto, bello, ricco e pronto a salvare i più deboli nel momento di bisogno. E ci tiene tanto il regista a mostrare lo sfarzo degli americani, così attenti all’apparenza da rimproverare Laszlo per i suoi atteggiamenti dissoluti perche “se ti comporti da mendicante allora SEI un mendicante”. È una classe borghese ben vestita e ingioiellata quella mostrata, che tende la mano allo straniero e lo ripulisce per farlo apparire più simile a sé ma mai uno di loro. Così come bella è la regia, elegante e sontuosa, la fotografia che mette in risalto gli splendidi colori dei paesaggi e degli abiti dei personaggi e la musica, onnipresente, poesia sonora per la terra delle opportunità. 

the brutalist recensione

Brookstreet Pictures, Kaplan Morrison, Andrew Lauren Productions

L’incubo americano – The Brutalist recensione

La regia, la fotografia, la musica, tutto cambia dopo l’intervallo perché quanto mostrato è in realtà una menzogna, un specchietto per le allodole che sfrutta la ricchezza e il potere per prendere con la forza ciò che vuole. Laszlo viene attirato con la promessa di un’opera magnifica affidata interamente a lui e alla sua arte, arte da cui il magnate è appassionato. Se non fosse che dietro la passione si nasconde un invidia latente per ciò che non gli appartiene ma sente suo di diritto. Nella seconda parte di The Brutalist il sogno americano è smentito, perché la statua della libertà non punta verso il cielo ma agli inferi. Quello che si presentava come un mecenate è in realtà l’ennesimo carceriere, un bugiardo che commissiona un’opera non a fini artistici ma per capriccio personale. 

Corbet ritrae un paese crudele, che si nasconde dietro un apparente buonismo ed è pronto a stuprare l’arte altrui pur di definirla sua. Ecco quindi che il film si incupisce, diviene più oscuro, la narrazione si frammenta come la psiche del suo protagonista, vittima di un inganno e succube delle droghe. Dipendenza invogliata dal paese stesso, che cura una ferita al naso con l’oppio. È quindi uno scontro diretto quello tra l’arte brutalista, pura e priva di orpelli come la bellezza della natura e l’ossessione per l’apparenza e lo sfarzo dei personaggi americani, dominati dal denaro e dalla megalomania. La seconda metà di The Brutalist è in netto contrasto con quanto mostrato prima, come due facce della stessa medaglia: la scintillante luce del sole visto dalla cima di una gru e l’oscurità della notte in una cava di marmo. 

Eppure esiste – The Brutalist recensione

Brady Corbet mette in scena un artista alle prese con un’opera bigger than life ed è impossibile non notare un parallelismo con quanto rappresentato dal film stesso. Impossibile pensare al giorno d’oggi un film di 3 ore e mezzo, girato in pellicola, in un formato risalente agli anni 50’ e messo in mano ad un regista al suo terzo lavoro. Oggi che l’arte è supportata solo se profittevole, Corbet realizza un’opera anticommerciale, immensa, su un artista (inventato di sana pianta) alle prese con un lavoro altrettanto immenso e ostacolato dai suoi stessi finanziatori/produttori, vittima del capitalismo.

Chissà quali saranno le sorti di The Brutalist, se come alcuni dei film presentati a Venezia nelle scorse edizioni sarà tagliato perché troppo lungo (Finalmente l’Alba), modificato perché ritenuto incomprensibile (America Latina), magari pretenzioso (Bardo), o se verrà preservata la visione originale. Resta quella di Corbet un operazione incredibile (letteralmente) e rappresentante della tragicità artistica. Chissà come ne parleremo tra 20 anni.

the brutalist recensione

Brookstreet Pictures, Kaplan Morrison, Andrew Lauren Productions

The Brutalist

Voto - 9

9

Lati positivi

  • L'impianto tecnico e la netta divisione tematica e stilistica del film
  • La rappresentazione della tragicità artistica

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