ACAB: la recensione della nuova serie Netflix

A più di un decennio dall'omonimo film di Sollima torna la squadra più famigerata del Reparto Mobile di Roma in una serie politicamente meno incisiva ma ancora decisamente attuale

Dal 15 gennaio su Netflix è disponibile ACAB, la serie ispirata all’omonimo film del 2012 di Stefano Sollima. Sei episodi, interpretati, tra gli altri, da Marco Giallini e Adriano Giannini, che riprendono il lungometraggio di partenza aggiornandolo, però, ai nostri tempi e a un linguaggio, quello seriale, capace di incidere profondamente sulla sua storia e le sue stesse tematiche, fino a trattare un tema spinoso e decisamente attuale come quello sulla giustizia e sull’abuso di potere da una prospettiva inedita, in una costante oscillazione tra genere e cronaca, realismo ed empatia.

Creata da Carlo Bonini (autore dell’omonimo romanzo da cui film e serie sono tratti) e Filippo Gravino e diretta da Michele Alhaique (già regista di serie come Non uccidere, Romulus e Bang Bang Baby), la serie prodotta da Cattleya guarda infatti al film di Sollima (qui produttore esecutivo) con una consapevolezza nuova, facendo propria la lezione tanto di film recenti nostrani quali Il legionario di Hleb Papou quanto di serie internazionali come Antidisturbios di Rodrigo Sorogoyen. Il risultato è un’opera più attenta al privato e alle psicologie dei suoi protagonisti piuttosto che all’analisi politica e sociale del contesto in cui vivono, ma capace comunque di imbastire un discorso su violenza, omertà e senso di appartenenza non scontato.

Indice:

Trama – ACAB recensione

In una notte di feroci scontri in Val di Susa una squadra del Reparto Mobile di Roma resta senza il suo capo, ferito da una bomba carta. A Mazinga (Marco Giallini), Marta (Valentina Bellè) e Salvatore (Pierluigi Gigante) non rimane così che reagire come hanno sempre fatto, contrapponendo ai disordini e al caos metodi ai limiti della legalità e un affiatamento da tribù. È con questa fratellanza, quasi una vera e propria famiglia, che dovrà fare i conti il nuovo comandante Michele (Adriano Giannini), poliziotto onesto e riformista (e, quindi, “infame”) per cui le squadre come quella sono il simbolo di un vecchio mondo oramai superato.

Come se non bastasse al caos che investe la nuova formazione nel suo momento di massima fragilità, tra indagini, omertà e depistaggi, si aggiungono, da una parte, una nuova ondata di insofferenza crescente dei cittadini nei confronti delle istituzioni, dall’altra i problemi famigliari dei singoli membri del gruppo. Aspetti che li costringeranno a mettere in discussione il significato più profondo del proprio lavoro e del proprio senso di appartenenza alla squadra.

ACAB recensione

ACAB. Cattleya

Il braccio violento della legge

A tredici anni di distanza dall’omonimo film di Sergio Sollima torna la squadra più famigerata del Reparto Mobile di Roma, portando con sé il consueto carico di machismo, violenza e omertà. A tenere assieme e unire le due vicende in questo lungo lasso di tempo non solo la presenza del Mazinga di Giallini ma soprattutto lo stesso distorto senso di giustizia che accomuna i membri del gruppo, una fratellanza fatta di violenza, rappresaglie e vendetta capace di resistere al tempo e alle epoche. È una famiglia elettiva dai forti echi tribali, del resto, quella di ACAB. Divisa tra senso del dovere e salvaguardia del gruppo, rispetto per la divisa e aderenza a metodi spesso poco ortodossi se non decisamente illegali.

È proprio questa zona d’ombra, quel confine sempre drammaticamente negoziabile tra giustizia e abuso di potere, che la serie decide di raccontare e approfondire, andando là dove il film non si era spinto ma lasciando anche da parte quel sostrato politico e sociale da cui l’opera di Sollima prendeva le mosse. Nelle vicende di Mazinga e compagni non c’è più posto per nostalgie del Ventennio o discorsi xenofobi, quasi come se, entrando nelle modalità e nei tempi seriali, fossero cambiate anche le priorità. È così che la serie decide di concentrarsi soprattutto sulla vita privata dei suoi protagonisti e su come questa, spesso, finisca per condizionarne lavoro, pensieri e azioni.

ACAB recensione

ACAB. Cattleya

Tra realtà e fiction

Abbracciando più esplicitamente la fiction (i riferimenti all’attualità, pur presenti, restano puramente finzionali) e accantonando, almeno in parte, le ambizioni “sociologiche” del lungometraggio, la serie finisce in questo modo con l’innestarsi su binari più tradizionali ma non per questo meno interessanti. Se la struttura replica infatti a grandi linee il soggetto e le dinamiche del film (il ferimento del capo della squadra, la rappresaglia da parte degli agenti e il conseguente tentativo di insabbiamento, fino a un finale dagli echi apocalittici), sono le diverse sottotrame, volte ad abbracciare diversi aspetti della vita privata dei protagonisti e legate a doppio filo alla vicenda principale, il vero punto di forza della serie.

Violenza sessuale e domestica, insicurezze emotive, tradimenti e dissidi famigliari entrano così a fare parte di un privato che si fa tutt’uno con la vita professionale dei personaggi, influenzandola, danneggiandola e pervertendola. È la rabbia a trovare così nel lavoro degli agenti la valvola di sfogo ideale. Un sentimento alimentato da frustrazioni e problemi personali che non cerca altro che uno spiraglio per venire fuori, piegando la giustizia al proprio volere e sconfinando spesso e volentieri nell’abuso.

ACAB recensione

ACAB. Cattleya

Buoni e cattivi

Bianco e nero si confondono così in continuazione, in ACAB, mentre le ombre emergono anche dove meno ce le si aspetta. Se nel film di Sollima non c’erano buoni o cattivi, ma solo cattivi, qui sembra invece, come dirà Michele Nobili – a suo modo, il fulcro morale dell’intera serie –, che siano tutti colpevoli e tutti innocenti allo stesso tempo, tutti con le loro motivazioni, con i loro alibi, con una giustificazione pronta per ogni evenienza.

A differenza del film pare allora che ACAB rinunci all’incisività politica (No Tav, occupazioni e scioperi qui restano trovate puramente finzionali e narrative) in favore di uno sguardo – complice anche la regia tesa di Alhaique, che ricalca, soprattutto nella gestione adrenalinica dell’azione, quella di Sollima – capace di incollarci ai suoi antieroi, da una parte cercando quell’empatia ormai imprescindibile per tanta serialità contemporanea, dall’altra suggerendoci come quella “tolleranza zero” tanto invocata in questi giorni non dovrebbe essere unidirezionale ma riguardare tutti gli attori in campo, anche chi, sfruttando la divisa, fa il peggior uso del suo potere.

ACAB

Voto - 7.5

7.5

Lati positivi

  • Pur essendo pienamente un prodotto di genere la serie riesce a toccare temi scomodi e complessi
  • Gli interpreti, soprattutto Giannini e Bellè, sono all'altezza così come la regia tesa e adrenalinica di Alhaique

Lati negativi

  • Rispetto al film la serie sembra più attenta al coinvolgimento emotivo piuttosto che a imbastire un vero discorso politico o sociale

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