Dogtooth: una società che costruisce muri perisce inesorabilmente
Una famiglia disfunzionale è la protagonista di un film in cui il nemico è la paura della realtà
In una famiglia paurosamente patriarcale, madre e padre costringono i figli a vivere da reclusi nella loro casa. Lo scopo? Proteggerli dalla vita pericolosa e dal mondo cattivo. Ma quando un segmento di realtà riesce a penetrare tra le pareti di questa prigione, il bisogno di libertà travolge il piano dei due morbosi genitori. Sono queste le premesse di Dogtooth, film del regista greco Yorgos Lanthimos (The Lobster, Il sacrificio del cervo sacro, La Favorita). Uscito in Grecia nel 2009, Κυνόδοντας ( questo il titolo in lingua originale) è stato recentemente distribuito nelle sale italiane da Lucky Red. Candidato all’Oscar come Miglior film straniero nel 2011, Dogtooth è una rappresentazione iperbolica di una famiglia disfunzionale, e ritrae le conseguenze di un’educazione orientata alla paura.
Dogtooth mette al centro della scena un capofamiglia severo e pericolosamente persuaso di conoscere, e incarnare, la verità assoluta; al suo fianco colloca una donna/strumento che, succube del marito, ne avalla il torbido sistema educativo. Intorno a queste due insani genitori orbitano i figli, un maschio e due femmine; tre adolescenti che si muovono come scimmie ammaestrate, che servono il padre come cani da riporto e parlano con la stessa cadenza di un TomTom. Nel cast troviamo gli attori Christos Stergioglou, Michele Valley, Angeliki Papoulia, Hristos Passalis e la prematuramente scomparsa Mary Tsoni. Tra stupidità meschina e ignoranza pericolosa, Lanthimos regala una pellicola straniante e morbosa, parossistica eppure, a tratti, quasi realistica. Ma addentriamoci nella nostra analisi di Dogtooth.
Indice
- Un gioco non divertente
- Il diritto alla vita dei maschi
- Muri e contaminazione
- Una casa bianco sporco
- L’unico epilogo possibile
Un gioco non divertente – Dogtooth
In una casa cupa e bianca vive una famiglia avulsa dal mondo esterno. A dettare le regole è il padre, l’unico autorizzato a uscire dall’abitazione. Una società familiare distopica, nella quale è un registratore a istruire i figli; grazie a questo dispositivo i genitori realizzano, con la propria voce, delle vere e proprie lezioni per i loro ragazzi. Insegnano che il telefono è un condimento per alimenti, e che gli zombie sono piccoli fiori nel giardino. Padre e madre privano ogni parola del suo significato; poi la risemantizzano, per presentarla ai figli in forma di verità inconfutabile. Scindono il legame convenzionale tra significati e significanti, e così attuano il loro sadico piano: plagiare i figli, privarli della loro umanità rendendoli pedine inconsapevoli di un gioco per nulla divertente.
Ma tre adolescenti sviluppano bisogni che possono essere repressi ma non soppressi. Uno di questi è il divertimento, che i protagonisti sono abituati a soddisfare con passatempi improbabili e a tratti inquietanti. Giocano a chi riesce a tenere il dito sotto l’acqua bollente per più tempo, o a chi si risveglia prima dopo aver respirato il cloroformio. Con lo sguardo catatonico e la voce meccanica, sembra che vogliano esplodere eppure rimangono fermi. Sopportano. Finché ciò di cui i genitori li hanno privati riesce a farsi sentire, e l’equilibrio perfetto crolla.
Il diritto alla vita dei maschi – Dogtooth
Per anni, la soglia di casa non è varcata da nessuno che non appartenga al nucleo familiare. Finché un giorno, quando il figlio maschio raggiunge la pubertà, le cose cambiano. Il padre decide che i bisogni sessuali del figlio vanno appagati, anche a costo di correre dei rischi; così in casa viene introdotta una ragazza a mo’ di escort. Ma quella donna, l’alieno venuto da lontano, diviene oggetto di curiosità e desiderio più per le figlie femmine che per il maschio, che vive le performance sessuali con apatia. In tutto ciò, a stridere è l’indifferenza del padre verso i bisogni delle femmine; anche loro crescono, eppure continuano a essere trattate alla stregua di bambole di pezza.
È il trionfo della famiglia patriarcale e della mentalità sessista: la libertà è un’esigenza da calpestare e ignorare, a meno che tu non sia un maschio adulto. Il padre espone la famiglia a un rischio soltanto per soddisfare – benché con procedure squallida – le presunte pulsioni sessuali del figlio. È il compito del capofamiglia repressivo, autoritario e retrogrado: proteggere maniacalmente la prole, ignorare le femmine e appagare il maschio. Intanto tutti vengono mossi come burattini, perché solo il padre può sapere qual è il bene dei suoi cari. In ogni nucleo culturalmente arretrato, è il maschio adulto che conosce la verità. Solo lui, l’uomo, ha diritto alla vita e alla libertà, in una società priva di conoscenza.
Muri e contaminazioni
Ogni società deve interagire e contaminarsi col mondo esterno. Se non lo fa, perisce. La famiglia di Dogtooth si chiude ermeticamente dentro una bolla, e ne paga le conseguenze. Personaggi senza nome, persone prive di un’identità; identità che non serve quando non si entra in contatto con l’altro. Nel film di Lanthimos non esiste comunicazione; tutti parlano a scatti, quasi fossero robot. Tutti hanno dimenticato il proprio corpo, vivono e agiscono allo scopo di funzionare piuttosto che di sentire. I tre ragazzi assomigliano a macchine dai volti patetici, costretti ad abbaiare in giardino mentre il padre li addestra a difendersi dai pericoli.
Il senso della vita dei protagonisti di Dogtooth è la paura stessa, e la materia di cui sono fatte le loro giornate è l’inganno. Gli unici film che è lecito guardare sono i filmini amatoriali di famiglia: il ripiegamento su sé stessi portato al parossismo. Una metafora attuale – benché il film si stato girato oltre dieci anni fa – della virulenta avversione per tutto ciò che proviene dall’esterno, e che pare volerci invadere. Ma una società che costruisce muri in luogo dei confini è destinata a soccombere. In Dogtooth, tutto nasce e muore all’interno della famiglia. Anche i figli, vittime inermi di un massacro sui generis.
Una casa bianco sporco
Nella casa che ospita i personaggi domina il colore bianco, che contrasta con l’atmosfera spenta e torbida del luogo. Non v’è purezza né luminosità, tra le pareti di un luogo che si erge sulla menzogna e la manipolazione. Un’ambientazione in contrasto (e contraddizione) con un film magnetico e disturbante, a tratti persino disgustoso. Dogtooth mette in scena la degenerazione del concetto di amore e protezione, che diventano difesa ostinata di una realtà squallida. Una realtà pericolosa e autodistruttiva, come rivelerà l’epilogo. I giovani attori regalano tre ottime interpretazioni: adulti cresciuti come bambini e spostati come oggetti, con i sorrisi addolorati di chi vuole compiacere il proprio aguzzino. Ma anche con il bisogno di amore di chi l’amore non l’ha mai conosciuto; di chi si mette a dormire nel letto in mezzo a mamma e papà, che somigliano sempre più a due nemici.
Ai protagonisti è preclusa la possibilità di vedere ciò che sta oltre un determinato confine (la soglia di casa); questo senso di esclusione viene ricreato ad arte dallo stesso Lanthimos, che impedisce allo spettatore di vedere l’intera scena sullo schermo. Il regista sceglie spesso infatti di lasciare qualcosa fuori dall’inquadratura: nei dialoghi inquadra solo uno dei due interlocutori, nelle scene corali riprende i protagonisti dalla vita in giù. Ergendo barriere e tracciando confini, Lanthimos amplifica la curiosità dello spettatore come il padre fa con i figli. Esemplificativa di ciò la scena in cui la figlia maggiore guarda due film in videocassetta: quella finestra sul mondo scatena in lei un benessere euforico, quasi isterico. La giovane impara subito a memoria le battute dei film, e le ripeterà compulsivamente per tutto il giorno.
L’unico epilogo possibile – Dogtooth
Il padre ha insegnato ai figli che si è pronti per uscire di casa soltanto quando il canino destro cade. La figlia maggiore, dopo aver visto due film e aver conosciuto il sesso – tramite un rapporto incestuoso col fratello – sviluppa il desiderio di fuga. Con un oggetto contundente allora, una notte, va in bagno; davanti allo specchio, la giovane si colpisce ripetutamente fino a spaccarsi un dente. Poi, mentre sanguina copiosamente, va a rintanarsi nel portabagagli dell’auto del padre. La ragazza sente di essere pronta per affrontare il mondo, ma le cose vanno in modo diverso. Quando i genitori si accorgono che la figlia è sparita, la cercano in preda al panico ma falliscono. Il mattino dopo, l’uomo esce di casa a bordo della propria auto, ma non si accorge che la figlia è lì dentro.
Una volta fuori, parcheggia e si allontana dall’auto; l’inquadratura resta fissa sul bagagliaio, che però rimane chiuso. Titoli di coda, la ragazza non viene fuori. Forse morirà dissanguata, ma quel che è certo è che non uscirà mai. La spirale perversa costruita dai genitori non lascia spazio alla rinascita, conducendo alla sofferenza, all’autodistruzione e alla morte. L’epilogo nichilista di Dogtooth è l’unico possibile: non c’è vita senza pericolo, e se si rifiuta ogni contaminazione non si è mai esistiti davvero. Nel bagagliaio soccombe non solo la figlia più grande, ma l’intera famiglia e insieme quel meccanismo perverso che l’ha tenuta in piedi per troppi anni.