Il cinema di Sofia Coppola: girlhood, solitudine e privilegio
La difficoltà del passaggio da bambine a giovani donne e il privilegio che porta inevitabilmente alla solitudine sono le firme di Sofia Coppola che con Priscilla chiude il cerchio
Durante la sua lunga carriera, Sofia Coppola ha diretto, prodotto e scritto molteplici lungometraggi, la maggior parte dei quali sono stati accolti con entusiasmo dalla critica e dal pubblico. Figlia del famoso regista Francis Ford Coppola, la regista ha avuto fin dai suoi esordi una strada facilitata, non a caso i primi film sono proprio prodotti da suo padre. Un privilegio che non è mai stato celato e che viene continuamente ricordato nella scrittura dei suoi film. Essere una donna e nata in una forte situazione di privilegio: sono queste due peculiarità che si ripetono nella sua filmografia con personaggi ricchi e che occupano ruoli privilegiati, ma la cui vita è miserabile. Fin dal suo crudo esordio con Il giardino delle vergini suicide fino a Priscilla, Coppola intreccia la ricchezza con la solitudine e la crescita con le restrizioni sociali.
Fin dal suo esordio, Sofia Coppola ha un’attrazione in particolare per personaggi privilegiati, coloro che dovrebbero vivere una vita di agi e tranquillità la cui realtà è però molto diversa. I soldi, nei mondi narrativi creati da Coppola, permettono una vita fatta di noia e ripetitività. Le protagoniste della regista sono rinchiuse in una gabbia dorata la cui chiave è tenuta da altri: il proprio fidanzato, i genitori o la società stessa.
Indice
- La solitudine e l’incomunicabilità in Lost in Translation
- L’altro lato di Hollywood
- “Si vede che non è mai stato una ragazza di 13 anni”
- Che mangino brioches
- Priscilla
- Le strutture di potere nell’America degli anni 50
La solitudine e l’incomunicabilità in Lost in Translation – Il cinema di Sofia Coppola
Nel 2003 esce Lost in Translation, secondo lungometraggio della regista che getta le basi sul discorso del privilegio indissolubilmente legato alla solitudine.
I due protagonisti, in due fasi totalmente diverse della loro vita, si ritrovano in un ambiente straniero, alienati, circondati da persone che non li comprendono e non solamente per la barriera linguistica. Charlotte si è appena laureata e si è sposata da poco con John, un fotografo che è dovuto andare in Giappone per un breve lavoro. Charlotte è andata con lui, ma invece di fare la turista da sola e con suo marito, si ritrova spesso sola nella loro camera d’albergo ad ascoltare discorsi motivazionali del guru di turno o semplicemente ad osservare gli altri dalla finestra. Bob è un famoso attore americano in pieno declino che è in Giappone per girare lo spot di un liquore. La sua carriera sta giungendo al capolinea così come il suo matrimonio, e trovandosi in un momento della vita totalmente opposto a quello di Charlotte vede nella ragazza la speranza data dalle possibili strade che si possono prendere alla sua età. Charlotte, dal canto suo, vede in Bob una figura solida e rassicurante.
Tra i due si crea una relazione fatta d’intesa e di un’intimità nata dalla comprensione e dall’empatia, un amore platonico che raggiunge il suo apice solo durante il finale del film quando Bob decide di tornare in America rifiutando la proposta di Charlotte di restare con lei, salutandola con un sussurro non udibile e un bacio d’addio. Tokyo passa dall’essere una prigione dorata e simbolo di solitudine e incomunicabilità al loro parco giochi. Come bambini si tengono la mano correndo per le strade, vanno al karaoke, si godono per la prima volta la città come turisti curiosi e sfruttano ogni momento libero passandolo assieme.
Per quanto Lost in Traslation sia un film velato dalla malinconia e abbia un finale agrodolce, la storia di Bob e Charlotte è piena di speranza, di amore e di accettazione. Sdraiati sul letto, Charlotte gli confessa di trovarsi ad un bivio e di brancolare nel buio: “Io non so cosa voglio diventare, capisci?”, ma Bill le risponde rassicurante: “Ce la farai di sicuro. Non sono preoccupato per te, continua a scrivere”. Lei replica, poco convinta: “Ho dei limiti”. Bill la guarda negli occhi e dice qualcosa che probabilmente avrebbe voluto sentirsi dire lui stesso quando aveva la stessa età della ragazza: “Non è un male”.
L’altro lato di Hollywood – Il cinema di Sofia Coppola
Ma è con Somewhere che Sofia Coppola raggiunge l’apice del suo discorso sulla solitudine e sul privilegio. Johnny Marco è un famoso attore hollywoodiano che passa le giornate girando Los Angeles con la sua macchina, si addormenta guardando spogliarelli e trascorre il suo tempo principalmente da solo. Tutto questo cambia quando si ritrova a passare del tempo con sua figlia Cleo. I due legano immediatamente, recuperando anni passati lontani. Ma quando si separano di nuovo, Johnny torna alla sua vita solitaria.
Somewhere (2010) è un esperimento estremo per la sua sceneggiatura quasi priva di momenti salienti che descrive una vita solitaria e monotona. Sofia Coppola preferisce concentrarsi sulla quotidianità ordinaria di un attore famoso, con solamente accenni alla sua ricchezza. Una vita caratterizzata principalmente da momenti morti e dalla noia che la fa da padrona. La solitudine che prova Johnny – cifra del cinema di Coppola – è ben rappresentata da una scena cardine del film: Johnny si sta preparando per interpretare un nuovo personaggio molto più anziano di lui, i truccatori hanno bisogno di prendergli il calco del viso per costruirgli la maschera. Durante tutto il processo, i truccatori lavorano sul suo viso ignorando la sua presenza se non, appunto, per applicargli lo stampo.
Quando rimane solo nella stanza, la telecamera si sofferma su di lui per una manciata di minuti con solo il rumore del suo respiro ad accompagnare la scena. Una statua senza viso la cui identità è stata cancellata. Somewhere non è l’unico esempio in cui Coppola si sofferma sulla vita hollywoodiana delle star: lo fa in modo trasversale con Bling Ring in cui le protagoniste si introducono nelle case lussuose di attori, artisti e ricchi di Los Angeles. Le vite dei privilegiati vengono, in questo caso, viste dall’esterno, da un gruppo di ragazze che sognano quel tipo di vita.
“Si vede che non è mai stato una ragazza di 13 anni”- Il cinema di Sofia Coppola
Sofia Coppola riesce a ricreare le sensazioni di vivere in prigionia, la costruzione di un mondo solamente intravisto attraverso le sbarre di una gabbia dorata. Tipico del suo cinema è il tema della crescita e la rappresentazione dell’adolescenza in chiave pessimistica, una tematica che è riservata esclusivamente ai personaggi femminili. In Il giardino delle vergini suicide, Marie Antoniette e Priscilla le protagoniste dicono addio all’infanzia per entrare in un periodo di vita difficile dettato da rigide regole e pressioni sociali.
Con Il giardino delle vergini suicide, Sofia Coppola porta sullo schermo un film crudo ed esplicito sulle difficoltà di essere un’adolescente. Una lotta generazionale, un divario tra gli adulti e le loro figlie dove i primi vedono le seconde come delle attrici nel pieno di un dramma, di una tragedia greca esagerata. Gli adulti considerano i giovani incapaci di comprendere la vita e di non saperne riconoscere le sfaccettature, le difficoltà e i pericoli.
Come dice Cecilia, dopo aver tentato il suicidio, al dottore “si vede che non è mai stato una ragazza di 13 anni”. Perché Le vergini suicide non tratta dell’adolescenza nella sua complessità, ma di come è essere una ragazza adolescente, di quali siano le pressioni sociali a cui deve sottostare, a cui si deve piegare anche a discapito della propria libertà. Coppola è incredibile nel costruire la narrazione affidata ad altri personaggi: dai vicini che raccontano quel che succede alle ragazze come se fosse un mero pettegolezzo, ai ragazzi ossessionati da loro e dalla loro vita che tentano di ricomporre i pezzi per cercare di capire cosa le abbia spinte al suicidio.
L’adolescenza è vista da Coppola come una brusca presa di coscienza: le ragazze non hanno più l’opportunità di vivere con spensieratezza come quando erano bambine, ma vengono costrette a plasmarsi secondo i valori di una società con regole rigide e a considerarsi soltanto degli oggetti per i loro coetanei, ma anche dai genitori stessi. I ragazzi che narrano la loro storia non fanno altro che idealizzarle, romanticizzarle e sessualizzarle specialmente quando soffrono, non riuscendo a capire con chiarezza cosa sta succedendo alle quattro ragazze superstiti sebbene sia sotto gli occhi di tutti. Se avessero guardato realmente, avrebbero visto cinque ragazze a cui non è permesso nemmeno uscire di casa, divertirsi e ascoltare musica, avrebbero visto che Lux, a cui sono destinate le fantasie sessuali di tutto il gruppo dei ragazzi, usa il sesso come sua unica scappatoia dalla prigionia. Coppola rende una famiglia tipica americana rappresentata ampiamente negli anni 90: bianchi, appartenenti alla media borghesia, con una vita normale. Non è però il classico caso dove la normalità nasconde altro perché tutto quel che loro accade è di dominio pubblico, è una normalità che rende gli abusi una realtà quotidiana.
Che mangino brioches – Il cinema di Sofia Coppola
Con Marie Antoniette (2006), Coppola unisce le due tematiche a lei care: la solitudine vissuta da un personaggio privilegiato e le difficoltà dell’adolescenza. A Maria Antonietta sono state affibbiate molteplici colpe, ma Sofia Coppola non dimentica mai che la sovrana è diventata tale da molto giovane. Questo è il punto di partenza di Marie Antoniette, che non vuole essere un biopic fedele e storicamente accurato (lo stile pop, la palette di colori pastello e le famose Converse che fanno capolino in un’inquadratura sono sufficienti a prendere le distanze dalle fonti storiche), ma un film che parla di adolescenza, di crescita e di solitudine.
Entriamo in sintonia con lei fin dall’inizio, dal momento in cui esce dalla propria casa che non vedrà mai più, diretta al confine francese. Lì è obbligata a separarsi dai suoi averi e soprattutto dal suo cagnolino perché, in nome di una vecchia tradizione, le è proibito portare qualsiasi cosa proveniente dall’Austria. Una separazione che avviene sotto gli occhi glaciali dei presenti, un momento durante il quale le donne di corte la giudicano con asprezza e il suo futuro suocero è interessato alla taglia del suo reggiseno. A differenza di Il giardino delle vergini suicide, in Marie Antoniette e Priscilla non è presente lo sguardo maschile a filtrare la vita delle protagoniste. Sono loro ad essere il centro nevralgico della narrazione.
Con Marie Antoniette, Coppola arricchisce quel filone che mette al centro il privilegio legato alla solitudine. Maria Antonietta è costantemente lasciata sola anche quando ricerca spasmodicamente attenzioni e viene giudicata per quella solitudine. L’unico compito che ci si aspetta da lei è quello di dare un erede al Re, un figlio che possa unire politicamente le due nazioni. Una responsabilità che ricade sulle sue spalle, sebbene sia l’unica che cerca di entrare in intimità con un marito che la rifiuta e si scusa con promesse vuote. Coppola descrive l’adolescenza come un momento di esplorazione, ma che ha sempre un finale negativo. In Le vergini suicide, le protagoniste si suicidano dopo essere state punite per la loro voglia di libertà, Maria Antonietta si gode la libertà dopo aver messo al mondo l’erede. Il privilegio conferito dal suo status le permette di avere una vita tranquilla finché il popolo non si ribella.
Priscilla – Il cinema di Sofia Coppola
Con Priscilla, Sofia Coppola cambia nuovamente punto di vista, ma con le medesime tematiche a lei care e uno stile che ricorda Marie Antoniette. Priscilla inizia quando la protagonista è una giovane ragazza che sta vivendo il sogno di molte sue coetanee: il già famoso Elvis Presley si interessa a lei e la corteggia fino a quando i due non diventano ufficialmente una coppia. Quello che avviene è un corteggiamento romantico che si trasforma in una relazione tossica.
Un corteggiamento che riesce ad addolcire anche i reticenti genitori di Priscilla le cui preoccupazioni vengono meno ogniqualvolta che Elvis li rassicura sulle sue buone intenzioni. Il loro rapporto segue fedelmente le tappe di una relazione tossica, un corteggiamento rosa e fiori che si trasforma una prigione. A Priscilla viene vietato di lavorare, viene iscritta ad una scuola cattolica, non può né parlare con le segretarie di Elvis né stare in giardino. Gli unici momenti in cui può svagarsi sono quelli in cui Elvis è presente.
Come scrive Wendy Ide nel suo articolo pubblicato su The Guardian, Sofia Coppola «non è una regista appariscente, ma un’osservatrice particolarmente empatica». Coppola è più interessata alle strutture di potere che circondano Elvis, sia come uomo che come star. I suoi scatti d’ira e il suo bisogno di accettazione influenzano ogni relazione, anche quella con altri uomini. In una delle scene cardine, Elvis porta Priscilla a far spese e mentre lei si prova un vestito dietro l’altro, Elvis e i suoi amici sono seduti nel salottino della boutique per giudicarla. I ragazzi seguono obbedientemente i gusti e le opinioni di Elvis, decantando la bellezza di Priscilla senza mai staccare gli occhi dal viso del ragazzo per tentare di leggere i suoi pensieri. In un’altra scena questa stessa dinamica viene replicata, ma Priscilla non dice quel che Elvis vuole sentirsi dire. In un piccolo ufficio, Elvis, Priscilla e gli amici di lui sono riuniti per ascoltare le canzoni che Elvis ha appena registrato. L’uomo è nervoso, il sound non lo convince e ha paura che il suo nuovo lavoro non sia incisivo come i precedenti. I suoi amici, visibilmente nervosi, tentano di dissuaderlo finché Elvis non chiede a Priscilla cosa ne pensa. Quando la ragazza, tentennante, gli confessa che non le piacciono molto, Elvis risponde tirandole una sedia che quasi la colpisce in volto.
Le strutture di potere nell’America degli anni 50 – Il cinema di Sofia Coppola
La coppia è il prodotto di un tempo e di un luogo molto specifici. Priscilla è cresciuta leggendo le riviste tipiche degli anni 50 che offrono consigli su come compiacere e tenersi stretto il proprio fidanzato. Ed è quello che Priscilla fa, cercando di modellarsi secondo l’ideale di femminilità stabilito da Elvis. L’adolescente Priscilla indossa abiti sartoriali pignoli e le sue décolleté con tacco a spillo sono sempre mezzo numero più grandi come una bambina che gioca a travestirsi in un ruolo che non conosce ancora. Le tappe della vita di Priscilla sono scandite dal modo in cui si veste. Con vestiti dalle nuance pastello e dai tratti rigidi prima di conoscere Elvis, con abiti scelti da lui quando si mettono assieme e con jeans e camicette quando il divario tra i due diventa sempre più grande e Priscilla inizia a prendere consapevolezza sulle dinamiche di potere che costituiscono il suo matrimonio.
Anche Elvis è cresciuto in un mondo rigidamente delineato dai ruoli di genere, basta vedere i modelli maschili della sua vita – suo padre, il suo manager, il colonnello Tom Parker – che tendono ad essere più prepotenti e controllanti. Le donne, secondo la sua esperienza, sono casalinghe indulgenti e accomodanti, donne a cui basta poco per essere felici e che sono ben liete di passare la maggior parte del tempo a casa da sole. Questa idea si traduce nelle aspettative che ha nei confronti di Priscilla.