Cinema e surrealismo: La settima (anti)arte secondo Salvador Dalì
Salvador Dalì è stato un artista versatile, che si è dedicato all’arte in tutta la sua pienezza. Non si parlerà infatti dei suoi quadri, ma della sua influenza nel mondo del cinema.
Il genio di Salvador Dalì
Era il 1904 quando nacque in Catalogna Salvador Dalì: sin da bambino la madre incoraggiò le sue inclinazioni artistiche, facendogli frequentare una scuola d’arte e portandolo al cinema quasi tutte le domeniche. Furono le sue esperienze presso Madrid e Parigi negli anni ‘20 a dargli però una più profonda formazione artistica: si accostò al movimento dadaista e conobbe i pittori Mirò e Picasso, le cui opere influenzarono molto il suo lavoro negli anni successivi. In ogni caso, furono innumerevoli gli artisti che ispirarono Dalì, dalla pittura classica alla più estrema avanguardia.
Il fervore culturale nella capitale francese tipico dei roaring twenties è rappresentato alla perfezione nel film di Woody Allen “Midnight in Paris”, in cui incontriamo tutti gli intellettuali che hanno dato vita a questa atmosfera spumeggiante. In una scena possiamo incontrare anche Dalì, la cui eccentricità è interpretata magistralmente da Adrien Brody, accompagnato da Man Ray e Buñuel.
“Vi piace la forma del rinoceronte? […] Io dipingo rinoceronte. Dipingo voi. Sì, i vostri occhi tristi e le vostre labbra che si affondano sulla sabbia calda con la lacrima sola. Sì, e dentro quella lacrima un’altra faccia! Di Cristo la faccia! Sì, e il rinoceronte….”
Dalì considerava il cinema una settima “anti-arte” perché, pur riconoscendone la grande capacità di riprodurre fedelmente il reale, è visto come il risultato di un processo di standardizzazione industriale lontano da qualunque altra forma d’arte convenzionale. Il linguaggio del cinema non deve pertanto limitarsi ad esporre la realtà così come la vediamo, ma deve anche portare alla luce le immagini occulte prodotte dall’inconscio; in piena linea col pensiero surrealista.
Collaborazione con Luis Buñuel
E’ il 1929 quando Dalì, affiancandosi al regista surrealista Buñuel, collabora alla realizzazione del cortometraggio “Un chien andalou”. Dalì si occupò principalmente della sceneggiatura, ma dichiarò di aver avuto un ruolo importante anche nella realizzazione tecnica del corto.
“Un chien andalou” voleva essere messo in contrapposizione col movimento dadaista, presentando quindi non solo immagini sorprendenti ma anche uno specifico contenuto. In questo caso, si può osservare un susseguirsi di immagini apparentemente sconnesse e confusionarie, come una sorta di delirio onirico, ma che in verità nasconde un senso profondo comprensibile solo alla luce della psicanalisi.
La scena più nota di questo corto è quella in cui un uomo, dopo aver osservato la luna, si avvicina con un rasoio all’occhio sinistra di una donna seduta, tagliandolo a metà. Si tratta ovviamente di un trucco di montaggio, in cui nella prima scena vediamo l’occhio spalancato dell’attrice e nel successivo quello di un vitello morto che viene tagliato in due. Lo scopo di questa sequenza disturbante è quello di tagliare in due l’occhio dello spettatore per mostrargli tutto ciò che non ha mai visto e quello che -forse- non ha mai voluto vedere.
Un anno dopo, nel 1930, abbiamo la seconda ed ultima collaborazione Dalì-Buñuel: “L’âge d’or”, film proiettato anche alla “Esposizione internazionale surrealista” di Tenerife del 1935. Rispetto al turbolento e confuso susseguirsi di immagini di “Un chien andalou”, viene presentato un filo narrativo costituito da due amanti che cercano di “consumare” la propria relazione romantica, venendo però continuamente ossessionati dalle convenzioni borghesi e dai tabù sessuali imposti dalla famiglia, dalla chiesa e dalla società. A causa delle grottesche e derisorie riletture della realtà e delle istituzioni, le pellicola è stata aspramente criticata dai politici di destra della “Ligue des Patriotes”, di stampo fascista e antisemita, i cui sostenitori hanno interrotto la visione del film irrompendo nella sala e assalendo gli spettatori che cercarono di opporsi alla loro protesta. Addirittura, in Francia ne fu vietata la visione fino al 1950.
Collaborazione con Alfred Hitchcock
«La nostra storia si occupa della psicoanalisi, il metodo col quale la scienza moderna tratta i problemi emotivi delle persone sane. L’analista cerca solo di indurre il paziente a parlare dei suoi problemi nascosti, per aprire le porte serrate della sua mente. Una volta che i complessi che disturbano il paziente sono scoperti e interpretati, la malattia e la confusione scompaiono…. e i demoni dell’irragionevolezza sono scacciati dall’anima umana»
Questo è l’incipit di “Io ti salverò”, film del 1953 diretto da Hitchcock, che nella psicoanalisi ritrova le tematiche a lui care della colpa e della confessione.
La dottoressa Costanza Petersen (Ingrid Bergman) è una stimata psichiatra della clinica “Villa Verde”, molto dedita al lavoro e poco alla vita sentimentale. Tutto però cambia da quando il vecchio primario della clinica viene sostituito dal presunto dottor Antonio Edwardes (Gregory Peck).
L’affascinante uomo, però, si trova in un profondo stato di amnesia che gli impedisce di ricordare chi sia realmente e cosa abbia fatto, ma specialmente che fine abbia fatto il vero dottor Edwardes. La verità potrà venire a galla solo con l’appoggio di Costanza, convinta che sarà la psicoanalisi a risolvere l’enigma.
Un fattore fondamentale in casi come questo è l’interpretazione dei sogni: ecco perché le scene di carattere onirico furono affidate a Dalì dal regista stesso, in contrasto col parere del produttore David O. Selznick. La volontà di Hitchcock era quella di rappresentare il mondo dei sogni con uno stile innovativo allontanandosi da “… la nebbia che confonde i contorni delle immagini” a favore di “tratti netti e chiari”, tipici delle opere di Dalì e De Chirico.
Per la sequenza in questione l’artista utilizza alcune immagini surrealiste realizzate durante la collaborazione con Buñuel e ne crea delle altre che riescono a rendere perfettamente la l’illogica logicità tipica dei sogni. I volti e i luoghi sono completamente insensati ma coerenti nel loro insieme, i volti sono confusi ma con un ruolo specifico, l’ambientazione tagliente, astratta e a tratti inquietante; come i drappeggi delle tende su cui sono dipinti dei grandi occhi. La scena dura in totale poco meno di tre minuti, anche se nel progetto originario avrebbe dovuto durarne 20. Sfortunatamente è andata perduta una sequenza in cui Ingrid Bergman si trasformava in una statua della dea Diana, sebbene ne esistano ancora alcune immagini.
Collaborazione con Walt Disney
E’ il 1945 quando Salvador Dalì e Walt Disney danno inizio ad un progetto che rimarrà dimenticato per oltre 50 anni: parliamo di “Destino”, un cortometraggio che non vide la luce fino al 2003; ma partiamo dall’inizio.
Tra il 1945 e il 1946 vennero attuati numerosi disegni e bozzetti preparativi per “Destino”, destinato ad essere un corto accompagnato dalle musiche del compositore messicano Armando Rodriguez. A causa della crisi economico-finanziaria dovuta alla seconda guerra mondiale, però, la Disney fu costretta ad accantonare il progetto. Solamente nel 1999, durante la realizzazione di “Fantasia 2000”, Roy Edward Disney -nipote di Walt Disney- ritrovò il progetto e decise di dargli una nuova vita.
Presso gli studi Disney di Parigi avvenne la magia: un team di 25 animatori si impegnò nel decifrare gli storyboard realizzati da Dalì, aiutandosi con i diari scritti da Gala (la moglie dell’artista).
Il cortometraggio, dalla durata di 6.32 minuti, venne completato nel 2003; e nello stesso anno fu premiato al Festival Internazionale del film d’animazione di Annecy. La storia di questa ballerina alla ricerca del suo amore in un deserto surreale venne anche nominata agli Oscar del 2004 come “Miglior cortometraggio d’animazione”.