Desiderio, disillusione, tenerezza: la trilogia dell’amore di Sam Mendes
Riflessioni sulla rappresentazione del sentimento amoroso in American Beauty, Revolutionary Road e American Life
Sappiamo bene quanto negli ultimi anni il genere romantico sia stato saccheggiato a mani basse da gran parte dei cineasti mondiali, con risultati ovviamente differenti. Tra coloro che con esso si sono cimentati nel modo migliore, non si può assolutamente prescindere dal ricordare l’opera del britannico Sam Mendes. Autore di quello che potremmo definire un vero e proprio trittico, il nostro regista è stato capace di indagare il sentimento amoroso in termini assoluti, con le sue molte imperfezioni e le sue magnifiche virtù; e sullo sfondo troviamo sempre un’America frenetica e una società malsana che costringono a inevitabili compromessi i propri ingenui inquilini.
Atto primo: American Beauty
Lester e Carolyn Burnham (Kevin Spacey e Annette Bening) incarnano le caratteristiche tipiche della famiglia borghese americana di inizio XXI secolo: giornalista depresso lui e nevrotica agente immobiliare lei, genitori incapaci della malinconica Jane, prigionieri della propria monotona esistenza. A rompere gli schemi dell’abitudine saranno: Angela, compagna di classe di Jane; il contorto colonnello Fitts, nuovo vicino di casa dei Burnham; il sognatore Ricky, figlio di quest’ultimo. Questo fu meritoriamente il film più osannato del 2000, con un raro accordo di critica e pubblico, arrivando a vincere 6 BAFTA, 3 Golden Globe e ben 5 Oscar, tra cui quelli per miglior film, regia, sceneggiatura e attore protagonista (allo straordinario Spacey!). Il motore di tutto è l’eros: c’è un cinquantenne invaghito di una sedicenne; una ragazza attratta dall’idea di suscitare le pruriginose fantasie di un uomo adulto; una donna di mezza età intenta ad avere rapporti sessuali col suo nemico in affari; un omofobo che teme la propria omosessualità repressa al punto da compiere un omicidio pur di serbarla segreta. American Beauty è il momento dell’attrazione incontrollata, dell’esplosione del desiderio come antidoto alla noia, del tradimento anelato come illusione di novità. Sam Mendes dirige con sapienza il ritratto corale di due generazioni sull’orlo di una crisi di nervi: vecchi alla ricerca delle emozioni sopite di una giovinezza perduta; adolescenti che sognano le attenzioni dei propri inadeguati genitori. L’abilità del regista sta proprio nella compassione sentita per i personaggi in campo; lungi dal voler sentenziosamente giudicare, egli si limita a dipingere con impressionante realismo il quadro di un’umanità guasta, ma che, nonostante tutto, ha ancora il coraggio di sperare.
<È difficile restare arrabbiati quando c’è tanta bellezza nel mondo. A volte è come se la vedessi tutta insieme, ed è troppa. Il cuore mi si riempie come un palloncino che sta per scoppiare. E poi mi ricordo di rilassarmi, e smetto di cercare di tenermela stretta. E dopo scorre attraverso me come pioggia, e io non posso provare altro che gratitudine per ogni singolo momento della mia stupida, piccola, vita. Non avete la minima idea di cosa sto parlando, ne sono sicuro, ma non vi preoccupate: un giorno l’avrete!>
Atto secondo: Revolutionary Road
April e Frank Wheeler, impiegato e casalinga, vivono nella Connecticut degli anni Cinquanta: per tutti sono l’emblema della felicità, ma in realtà sono esattamente l’opposto. Nel 2008, dopo le esperienze di Era mio padre e Jarhead, Mendes approda all’adattamento per il grande schermo dell’omonimo Revolutionary Road, romanzo degli anni Sessanta di Richard Yates. Ritornando al tema a lui caro fin dal fortunato esordio di otto anni prima, qui il nostro regista elabora una sceneggiatura nettamente teatrale, ben equilibrando l’eleganza patinata della forma e l’asciuttezza del contenuto. Ma lo spettatore va avvisato! Revolutionary Road è un film crudele nella sua vivida adesione alla realtà, a tratti volutamente irritante e ai limiti della sopportabilità. A mio parere, richiede almeno due visioni: la prima per subire duramente il colpo di parole che pesano come macigni; la seconda per abbandonarsi con maggior coscienza all’inferno domestico dei Wheeler. In fondo, Frank e April sono due anime appassite e disperate, naufragate in un mare di rabbia, rancore e recriminazioni reciproche: non c’è possibilità di salvezza, non c’è e non può più esserci alcuna via di scampo, se non un gesto eliminatorio e definitivo. A dare vita a questi corpi svuotati e ormai ben oltre la disillusione, troviamo Leonardo Di Caprio e Kate Winslet nelle migliori interpretazioni della loro carriera. Vibranti, vitali, energici, pur avendo messo una definitiva pietra sopra alla coppia diTitanic che li aveva consacrati al grande pubblico, i due attori furono ignobilmente snobbati dalla giuria degli Academy del 2008, che ebbe almeno la decenza di candidare come non protagonista l’immenso Michael Shannon, nel ruolo del figlio autistico degli ipocriti vicini di casa dei Wheeler. Feroci e appassionati, i due personaggi in scena richiedono la pazienza e la comprensione del pubblico, che, solo dopo aver metabolizzato quest’overdose di dolore, capirà di aver assistito ad un vero e proprio capolavoro.
Michael Shannon rivolgendosi ai coniugi Wheeler: <Mi dispiace per lei. Tuttavia, forse vi meritate l’un l’altra. Insomma, da come è ridotta adesso comincio a dispiacermi anche per lui: deve rendergli la vita un vero calvario se fare bambini è il suo solo modo per provare che ha un paio di coglioni! Ci vuole fegato per riconoscere la disperazione!>
Atto terzo: American Life
Burt e Verona sono una coppia di trentenni in dolce attesa intenti a percorrere l’America dalla Florida al Canada, alla ricerca di un posto dove stabilirsi in maniera definitiva; durante il viaggio incontreranno una serie di personaggi rocamboleschi che li porteranno a riflettere sulla vita che verrà. Nel 2009, a solo un anno di distanza dal precedente film, il regista porta a compimento la sua opera una e trina, realizzando un terzo capitolo che i distributori italiani decisero di distribuire con un titolo diverso rispetto all’originale Away we go, per riallacciarlo idealmente al primo dei tre film di cui qui abbiamo parlato. Tuttavia, questa volta Sam Mendes sceglie di infrangere lo schema in negativo seguito fino a questo momento, preferendo alla crisi dei sentimenti la dolcezza di un amore che si nutre della genuina innocenza e delle felici illusioni della giovinezza. Con una leggerezza che non è mai superficialità, Mendes (coadiuvato dagli sceneggiatori Dave Eggers e Vendela Vida) disegna con delicatezza ed estrema grazia la buffa coppia interpretata da Maya Rudolph e John Krasinski, accerchiata da una galleria di comprimari paradossalmente autentici nei loro tratti surreali e grotteschi. Il film si traduce in un confronto/scontro tra modi diversi di concepire la genitorialità; troviamo genitori egoisti e menefreghisti, altri tristemente arresi alla propria incapacità affettiva, altri ancora così dediti alla famiglia da essersi dimenticati di sé stessi, infine alcuni divulgatori di metodi educativi innovativi (il personaggio di Maggie Gyllenhaal è indimenticabile!). In mezzo la nostra coppia di adorabili innamorati, che, pur naufragati in un mare di notizie confuse e spesso non richieste, galleggiano in questo caos aggrappandosi l’uno all’altro e ritrovando il proprio ordine nella sincera tenerezza che li lega reciprocamente. Insomma, anche i cuori più gelidi non potranno non tifare a gran voce per questi paladini dei sentimenti e, a visione terminata, ci si ritroverà beatamente felici e commossi: questo è il potere del buon cinema. Chapeau, Sam!
<Sei la mia luce, Verona, il mio cielo. Ti giuro, non vedo l’ora di vederti mamma…la sua manina nella tua e il tuo sorriso sul suo faccino…Che c’è?>
<E adesso che facciamo noi due?>
<Che vuoi dire?>
<Nessuno si ama come noi, giusto? E allora adesso che facciamo noi due?>
<Credo che ci toccherà andare avanti…>