L’Isola dei cani e l’uso del colore nel cinema di Wes Anderson
La nostra analisi sull'uso dei colori nel cinema del genio Wes Anderson, a partire dalla sua ultima opera: L'isola dei cani.
Wes Anderson è – senza alcun dubbio – uno dei registi più apprezzati del cinema contemporaneo e a renderlo così amato sono diversi fattori. Oltre ai cast sempre colmi di attori straordinari, lo stile cinematografico riconoscibilissimo e le storie fiabesche che riesce sempre a disegnare in maniera ineccepibile, ci sono senz’altro i colori. Sì, perché se c’è una cosa che il giovane regista di Houston sa fare meglio di chiunque altro è proprio l’utilizzo del colore.
Vediamo insieme, ripercorrendo i momenti cruciali della carriera di Wes Anderson, come è cambiata la scelta dei colori e come è arrivato a creare la sua ultima opera: L’isola dei cani.
L’Isola dei cani e l’uso del colore nel cinema di Wes Anderson
Una scalata al successo sommersa di giallo
L’opera a consacrare il genio di Wes Anderson e a donarlo in tutta la sua creatività al grande pubblico, è stata senz’altro I Tenenbaum.
In questa eccentrica commedia familiare, vediamo innanzitutto delinearsi in maniera concreta quelli che poi diventeranno i principali caratteri distintivi del regista (più di ogni cosa la maniacale ricerca della simmetria); ma possiamo anche scorgere un pionieristico utilizzo del colore, volto -più di ogni altra cosa- al plasmare l’identità e la storia di ogni personaggio.
Il giallo, più di ogni altro colore, segna in maniera chiara e concreta quelli che sono i ruoli e le gerarchie nel gruppo familiare dei Tenenbaum. Sia quando ricopre completamente i personaggi (Richie e Margot, interpretati da Luke Wilson e Gwyneth Paltrow), sia quando è completamente assente (Chas, interpretato da Ben Stiller).
Così come ne I Tenenbaum, Wes Anderson ripropone un massiccio utilizzo del giallo anche nelle sue tre opere successive: Le avventure acquatiche di Steve Zissou, Il treno per il Darjeeling e Fantastic Mr. Fox.
Le sfumature della maturità
In queste pellicole il giallo assume significati sempre differenti, ma parimenti importanti in termini di narrazione. Ne Le avventure acquatiche di Steve Zissou, ad esempio, scopriamo un giallo a rappresentare il sottomarino, l’automobile, gli accessori subacquei. Tutto ciò che porta il protagonista all’avventura, e lo discosta dall’azzurro e rosso che circondano la sua vita. Un contrasto tanto sottile quanto evidente, che intelligentemente suggerisce allo spettatore dove volgere lo sguardo, e cosa aspettarsi dalla storia.
Ne Il treno per il Darjeeling, invece, il giallo assume la forma del viaggio e della scoperta, soprattutto nella figura di Jack (Jason Schwartzman), il più giovane di tre fratelli che provano a ricostruire il proprio rapporto in un viaggio spirituale.
In Fantastic Mr. Fox, infine, vediamo una fiaba moderna che è quasi immersa nelle tonalità calde del giallo, l’arancione e il rosso, andando in profonda contraddizione con le tendenze cromatiche del cinema moderno. Non cerca contrasti forzati, né si abbandona ad una scelta di colori imposta. Nel raccontare una fiaba dai toni talvolta comici talvolta drammatici, si crea un’identità ben chiara grazie al colore che più ha caratterizzato il regista fino a questo punto della sua carriera: il giallo.
Moonrise Kingdom, Grand Budapest Hotel e la consacrazione definitiva
A inscrivere Wes Anderson nell’Olimpo del cinema contemporaneo è, però, Moonrise Kingdom. Una storia d’amore inusuale, fuori dagli schemi, e proprio per questo irresistibile e dolcissima.
Il giovane regista decide di raccontarci la fuga d’amore dei ragazzini Sam e Suzy come fosse parte d’un libro per bambini dalle tinte pastello. Attraverso un delicato e dignitoso utilizzo della tecnica del teal and orange, Wes Anderson immerge tutto nell’azzurro e l’arancione, creando un contrasto infantile e familiare.
Troviamo anche un forte rosso, nella persona del narratore, ed un verde che grazie alla natura incontaminata delle ambientazioni riempe la maggior parte degli sfondi. Tutte sfumature che non tolgono mai l’attenzione dall’azione, ma che anzi la accompagnano per mano donandole grazia e carattere.
Con Grand Budapest Hotel, il più grande successo del regista, Anderson svela invece la sua vena coraggiosa e pronta ad osare. Sì, perché se in principio le sue scelte cromatiche puntavano alla rassicurazione, alla descrizione silenziosa di un dettaglio o di un personaggio; in Grand Budapest Hotel tutto cambia.
In questa straordinaria opera, i colori sono a tutti gli effetti protagonisti e lo sono con forza e vigore. Il rosa assume la forma della grazia e maestosità dell’Hotel nucleo della storia; rappresenta la femminilità nel personaggio di Agatha e la dolcezza della pasticceria per cui lavora, la Mendl’s. Il rosso ricopre buona parte degli interni dell’Hotel, dandoci un forte senso di potere, sfarzo e ricchezza, che compongono una fetta molto grande della narrativa di questo film. Il viola, infine, un colore inusuale nel cinema (per questioni di antiche superstizioni e, soprattutto, per la difficoltà nel collocarlo all’interno delle cromie di un film). Il viola rappresenta il lavoro, la serietà e l’intransigenza di uno dei personaggi più belli di tutta l’opera: Monsieur Gustave H.
L’isola dei cani e il potere dei contrasti
L’ultima opera, da poco uscita in Italia e già apprezzatissima dal pubblico e dalla critica, è L’isola dei cani. Qui potete trovare la nostra recensione.
In questo film (seconda opera animata in stop motion, dopo Fantastic mr. Fox), Wes Anderson decide di creare una storia di contrasti, narrativi e cromatici.
Da una parte gli esseri umani, a noi pubblico occidentale incomprensibili (in quanto si esprimono in sola lingua giapponese, senza sottotitoli), descritti in forti tinte di rosso e nero. Dall’altra i cani, che invece capiamo perfettamente (“renderizzati” nella nostra lingua), in un arcobaleno di tinte sporche: grigio, marrone, beige, ocra. In questo pout-pourris di tinte, Anderson ribalta la realtà in un futuro distopico nel quale ci troviamo dalla parte dei cani, dipinti in maniera umana.
Dai cani di razza ai meticci, da cani di casa a randagi, tutti sono simbolo di forte identità, purezza e onestà. Al contrario, gli esseri umani (tutti o quasi) sono disegnati in maniera netta e feroce, nei colori e nelle azioni. Rossi e neri che non lasciano spazio a seconde domande, parole, scritte ed ideogrammi in sovrimpressione che tentano di dare un senso ad una società ormai completamente priva di qualunque spinta compassionevole.
Infine c’è il bianco. Un bianco che nasce nei panni di Spots, il cane disperso da cui nasce l’avventura del giovane Atari, e matura nella figura di Chief (Capo), il testardo randagio che scopre la propria e intima identità grazie proprio ad Atari.
Grazie a questi contrasti e a questa realtà ribaltata, Wes Anderson riesce a raccontarci l’ennesima, stupenda storia in maniera unica e delicata.
E a voi quali sono le caratteristiche di Wes Anderson che più affascinano?