Oscar 2020: i favoriti per il premio alla miglior regia
Vediamo chi sono i papabili candidati all'ambita statuetta di miglior regista
Per discutere chi potrebbero essere i favoriti per la miglio regia agli Oscar 2020, è necessario tornare a immergerci in quell’atmosfera carica di tensione che contraddistingue il periodo pre-Oscar. Troppo spesso, in questi casi, ci si lascia andare a emotività e sentimentalismi che offuscano le capacità di giudizio. Guardando agli Oscar come a una gara si rischia di tifare ciecamente il proprio titolo preferito, rifuggendo da qualsivoglia forma di oggettività. Più professionale è invece approcciarsi agli Oscar da spettatori che, osservando la platea di grandi film, si godono lo spettacolo.
Questa breve, ma doverosa, premessa intende allontanare fanatismi che puntualmente finiscono per rovinare una sana competizione. L’Academy, con tutti i suoi difetti, è portatrice di un compito estremamente complesso che spesso non elegge il film qualitativamente migliore, ma quello più “idoneo” ad esserlo. Al di là della competizione intendiamo invece soffermarci sull’analizzare chi sono i registi di maggior pregio di quest’anno.Tutti meritevoli quantomeno di una nomination, alcuni saranno purtroppo esclusi per ovvie ragioni pratiche.
Indice
Il premio Oscar alla miglior regia
La statuetta al miglior regista ha un peso specifico davvero elevato, avendo determinato numerose volte anche il premio per il miglior film. Dei 91 titoli che sono stati premiati come miglior film, 65 di questi hanno infatti ricevuto anche l’Oscar alla regia. Chiaramente non è una regola e non deve creare orizzonti di attesa, ma il premio per il miglior regista è di certo uno dei più ambiti. La particolarità di questo ramo dell’Academy è la sua apertura al cinema d’oltremare: Innaritu, Cuaron e Guilliermo del Toro hanno dominato la categoria negli ultimi anni. Questa nuova tendenza potrebbe portare benefici alla quota straniera di questa edizione, rappresentata da Parasite di Boong Joon-ho e da Dolor y gloria di Pedro Almodovar.
I due registi dovranno però confrontarsi con veri e propri mostri del calibro di Tarantino o Scorsesein una sfida che si prospetta davvero frizzante. La seguente lista intende mappare i film più papabili alla candidatura e alla vittoria, suddividendoli in due categorie. I favoriti sono i quei film che, secondo il parere della redazione di FilmPost, partono in vantaggio e hanno dunque maggiori possibilità di essere quantomeno in lizza per la statuetta. Gli outsiders al contrario, per ragioni diverse l’uno dall’altro, partono con meno possibilità, ma un colpaccio da parte loro non è così improbabile.
I favoriti all’Oscar 2020 per la miglior regia
Quentin Tarantino – C’era una volta a… Hollywood
L’ode tarantiniana agli ultimi attimi della Golden Age Hollywoodiana non può che figurare nella rosa dei favoriti. Aiutato da un cast d’eccellenza Tarantino ricrea minuziosamente la Hollywood del ’69 e la cuce addosso a Sharon Tate (Margot Robbie), giovane icona della nuova generazione di attori. Questa, spesso contrapposta a Rick Dalton (Leonardo DiCaprio), agisce in realtà in una trama secondaria adombrata dalle vicende della fantastica coppia Dalton-Booth.
Una regia dal gusto fortemente nostalgico, come del resto l’intero film. Debitrice principalmente del western, italiano e non, l’abilità di Tarantino dietro la macchina da presa deflagra nel terzo atto. Le due trame finalmente si incontrano e il risultato è esplosivo: il sangue, assente per tutta la durata della pellicola, diventa il vero protagonista di un vero e proprio finale slasher. Tarantino si dimostra dunque ancora una volta esagerato e contraddittorio in un modo amabile e tutto suo, uno stile inconfondibile che difficilmente quest’anno non sarà presente agli Oscar.
Sam Mendes – 1917
Sam Mendes intende fare, con la prima guerra mondiale, ciò che Salvate il soldato Ryan ha fatto con la seconda: mostrare gli orrori e le atrocità della guerra in modo estremamente drammatico e umano. Forte della vittoria ai Golden Globes la candidatura di Mendes è quasi certa. Che sia il Salvate il soldato Ryan anche in materia di premiazioni? Difficile, ma di certo la tecnologia e l’approccio del regista britannico meritano già di per loro un encomio.
Concepito per essere percepito come un’unica ripresa senza interruzioni, 1917 è davvero imponente da un punto di vista registico. Mendes, insieme al direttore della fotografia Roger Deakins, si è preoccupato di portare l’esperienza dello spettatore verso un altro livello. Non si tratta solamente di una visione immersiva data dalla cura per i dettagli storici, dalla colonna sonora drammatica o dalla pulizia della fotografia. Mendes ha creato una seconda realtà pseudo-virtuale all’interno della quale lo spettatore è calato, ignaro degli orrori che la guerra può riservare se vista da così vicino.
Boong Joon-ho – Parasite
Vincitore a Cannes, il film di Boong Joon-ho non ha bisogno di presentazioni. Semplicemente eccezionale, Parasite diventa clamoroso proprio grazie alla relativa semplicità delle premesse. Il regista visionario modella una tragicommedia partendo dall’attuale situazione economica della Corea del sud, dove il divario tra ricchi e poveri è sempre più vasto. Parasite sa far ridere, sa emozionare, ma sa anche creare un sottile velo di suspance che poi diventa paura, sfoggiando l‘incredibile versatilità del suo autore.
Partendo dalla casa moderna e minimalista della famiglia Park, tutto in Parasite è metaforico. La reggia stessa è stata costruita sulla base delle inquadrature che Bong Joon-ho aveva già immaginato di fare. Ogni singola sequenza, taglio o angolazione è studiato per trasmettere qualcosa di preciso. Emblematica in questo senso è la sequenza del nascondiglio sotto al tavolo, simbolo sia del parassitismo che della loro inferiore condizione sociale. Dopo la vittoria come Miglior film straniero ai Golden Globes, chissà agli Oscar cosa accadrà.
Martin Scorsese – The Irishman
Netflix ha perso. La totale disfatta del colosso dello streaming ai Golden Globes è tanto evidente quanto imprevedibile e lascia dietro di sé una scia di considerazioni. Forse l’HFPA non è ancora pronta a incoronare Netflix a discapito di altre produzioni, ma l’Academy potrebbe dimostrarsi più aperta. Per la piattaforma di distribuzione ai Golden Globes l’hanno spuntata solamente Laura Dern e Olivia Coleman, rispettivamente per Marriage story e The Crown, ma la tendenza potrebbe cambiare in vista della notte degli Oscar.
In ogni caso Scorsese da una grande lezione di cinema in un tempo in cui la settima arte è sempre più schiva della produzione. Con Netflix il regista ha carta bianca e realizza una vera e propria arringa d’accusa, lunghissima, appariscente e monumentale. Fortemente nostalgico, Scorsese si affida a degli attori che hanno definito il cinema americano contemporaneo e, tecnicamente, preferisce il silenzio. Silenzi alienanti e assordanti determinano la forte posizione che il famoso cineasta ha preso con decisione rispetto al cinema odierno.
Todd Phillips – Joker
L’iconico personaggio di Joker è tornato al cinema con un film tutto suo che, a furor di popolo, si accinge a dominare le premiazioni. Forte di un ottimo Joaquin Phoenix, Todd Phillips gli cuce praticamente il film addosso. Ogni sequenza è pensata e diretta per esaltare il protagonista, che non si tira di certo indietro e regala una grande interpretazione. Facile per lo spettatore entrare in empatia con Arthur Fleck a causa della sua necessità di sentirsi amato, senza però amarlo.
Phillips costruisce un atmosfera avvilente dopo la sua creatura può proliferare in completa libertà: un carnevale perenne ma vuoto, dove non sembra esserci spazio per veri sentimenti positivi. Volutamente visivamente brutto, la regia si rifà a Scorsese e insiste sulla crescente depressione di Fleck riuscendo a modellare anche lo sguardo dello spettatore, ipnotizzato dall’abisso nel quale si sta avventurando. Vedremo se l’Academy premierà il famoso antieroe con una nomination o se lo limiterà ad altre categorie.
Gli outsiders agli Oscar 2020: saranno loro a ribaltare i favoriti alla miglior regia?
Pedro Almodovar – Dolor y gloria
Dolor y gloria è un film incredibilmente personale, fermamente ancorato alla magistrale prova di Antonio Banderas. È il dolore a far deragliare la carriera di un artista? No. Il dolore la modella e la plasma: al massimo ne può essere il motore. Solamente un maestro come Pedro Almodovar è in grado di catturare come la vita influenza la propria arte, mostrando il rapporto tra la storia di un cineasta e la sua mortalità. Almodovar non è nuovo a uno stile autobiografico, ma in questo film si supera diventando vero e proprio protagonista.
La chimica tra regista e protagonista è fortissima e i due superano il muro che sussiste tra vita e arte, inserendo anche quell’intertestualità tanto cara a Almodovar, particolarmente avvezzo al metacinema. Il regista torna dunque a livelli altissimi. A differenza dei suoi vecchi però, Dolor y Gloria è sostanzialmente privo di apici emotivi. Almodovar preferisce impostare la sua regia su un registro più profondo, privo di picchi, ma sempre intenso. Lo stile è perfetto per raccontare di un uomo, con gli stessi capelli sparati di Almodovar, che inizia a sentirsi anziano.
Noah Baumbach – Storia di un matrimonio
Analogamente a The Irishman, anche Storia di un matrimonio (Marriage Story) potrebbe essere svantaggiato (o avvantaggiato) dalla sua provenienza: Netflix. Ben presto definito il Kramer vs. Kramer degli anni 2000, il film di Baumbach è devastante. Il regista non perde tempo e, immediatamente, taglia la testa al toro, impacchettando già all’inizio del film la botta sentimentale che riecheggerà poi fino alla fine della pellicola. Il regista statunitense riesce per giunta a tirare fuori il meglio dai suoi interpreti, tutti candidati ai Golden Globes.
Baumbach si conferma come un grandissimo regista umanista, capace di far trasparire le emozioni in maniera assolutamente limpida. La separazione mette in luce il meglio e il peggio di Nicole (Scarlett Johansson) e Charlie (Adam Driver), ma in modo estremamente umano. Nessuno è colpevole: la vicenda è estremamente umana e proprio per questo i coniugi ci fanno emozionare così tanto. Non esiste il “tifo” o la “ragione” in amore, l’unica cosa che importa è che il piccolo Henry stia bene.
Rian Johnson – Cena con delitto – Knives out
Rian Johnson confeziona un fantastico omaggio al mondo di Agatha Christie, riuscendo a stare in equilibrio su quella sottilissima linea che separa una citazione da un cliché. Genuinamente divertente e divertito, Johnson non si prende mai troppo sul serio e guida un fantastico cast verso la realizzazione di uno dei migliori gialli contemporanei. Il carismatico ensamble è guidato da un inaspettato Daniel Craig che, coadiuvato dalla sempre promettente Ana de Armas, traina il peso della commedia.
Difficilmente lo statunitense verrà candidato per concorrere come miglior regista, ma la sua prova necessitava in ogni caso di essere almeno menzionata. Le furbe strizzate d’occhio ai gialli più classici unite a una frammentazione tipicamente moderna danno un risultato sorprendentemente amalgamato. Cena con delitto – Knives Out eccelle, registicamente parlando, soprattutto per un ottimale gestione spaziale in una casa che diventa essa stessa personaggio. Anche la comicità è dosata in maniera perfetta, condita anche con qualche stoccata politica che all’Academy, si sa, piace molto.
Taika Waititi – Jojo Rabbit
Non è assolutamente la prima volta che la figura del Führer viene satirizzata dai media, ma Taika Waititi tenta un’approccio leggermente diverso. Il regista, di origini ebraiche, parte dalla visione panglossiana di Jojo (Roman Griffin Davis) per sviluppare il suo messaggio. La satira che ne deriva è rivolta verso qualsiasi forma di fascismo contemporaneo ed è chiarificata da Jojo, un fanatico bambino di 10 anni protagonista di un violento lavaggio del cervello.
Waititi oppone al triste bigottismo di fondo colori chiari e brillanti e un tono essenzialmente leggero. L’atmodfera tipicamente andersoniana è ricreata anche grazie alle musiche di Micheal Giacchino, che contribuiscono a fare di Jojo Rabbit una bizzara commedia d’arte. Rispetto agli avversari Waititi ha forse osato troppo poco sul piano narrativo, ma un colpo di coda non è da escludere quando si parla di un film pregno di buonismo.
Robert Eggers – The Lighthouse
Impossibile non citarlo. Tra progettazione del suono e della produzione, Robert Eggers vuole spingere lo spettatore proprio dove sono i suoi protagonisti: ai limiti della sanità mentale. Le magistrali prove di Dafoe e Pattinson sono guidate da una regia ispirata, forse troppo estremista per l’Academy. Dalla scelta del bianco e nero all’aspect ratio di 4:3, tutto del film di Eggers richiama a gran voce il cinema espressionista tedesco.
Stiamo parlando di un vero e proprio assalto sensoriale, dove lo spettatore è intrappolato in una cacofonia di sinistri rumori. Dopo The VVitch, il visionario autore firma un’opera coerente, ma più radicale ed eterea. Molto difficilmente vedremo The Lighthouse agli Oscar quest’anno e si tratta di un vero peccato. La provocazione sperimentale di Eggers difficilmente sarà abbracciata dalla giuria e molto probabilmente vedremo questo fantastico titolo scivolarci via tra le dita.