Intervista a Claudio Fragasso, regista di Karate Man, dal 26 maggio al cinema

Dal 26 maggio al cinema, Karate Man: Claudio Fragasso ci racconta il film e l'importanza di un messaggio trasversale su come lo sport possa aiutare a superare ogni difficoltà

Al cinema dal 26 maggio, il nuovo film diretto da Claudio Fragasso, Karate Man, è un dramma sportivo che racconta una parabola basata su eventi reali. La storia è quella di Claudio Del Falco, un karateka che fin da bambino trova nello sport la forza di affrontare e combattere la malattia da cui è affetto: il diabete. Oltre al protagonista Claudio Del Falco, il cast del film include Anne Garcia, Michele Verginelli, Stefano Calvagna, Stefano Maniscalco, Marco Aceti, Tony Scarf e il giovanissimo Niccolò Calvagna. A firmare la sceneggiatura di Karate Man c’è Rossella Drudi, da un soggetto scritto insieme allo stesso Claudio Fragasso. In questa intervista, in occasione del debutto in sala della sua ultima fatica dietro la macchina da presa, Claudio Fragasso ha raccontato a FilmPost la genesi del film, i suoi messaggi e l’esperienza di girare dirigendo dei veri atleti di questo sport che il regista ha definito una vera e propria scuola di vita.

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Karate Man. Ponnto Production, Ipnotica Film

Claudio Fragasso: “Karate Man è anche una storia d’amore, la storia di un’amicizia profonda”

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Claudio Fragasso, Via Twitter. @claudiofragasso

Karate Man si ispira alla storia vera del protagonista Claudio Del Falco, un karateka che fin da piccolo trova nello sport la forza di combattere la malattia da cui è affetto. Quali sono i messaggi più importanti che pensi passeranno agli spettatori attraverso il tuo film?

Questa è una storia vera. A Claudio Del Falco hanno diagnosticato il diabete mellito quando aveva 8 anni. Attraverso lo sport, attraverso il karate è riuscito a trovare una forza interiore per combattere e andare avanti. Un po’ alla volta, attraverso lo sport e attraverso la filosofia del karate ha trovato la possibilità di uscirne fuori. Quindi il messaggio principale di questo film è che lo sport può aiutare la malattia a regredire, a essere controllata, pur continuando a essere parte della vita, perché non la si può eliminare. Ma al tempo stesso si può imparare a conviverci. Attraverso lo sport, attraverso la liberazione del fisico, ha trovato la sua identità anche mentale. Quindi ho raccontato questa storia, con la sceneggiatrice Rossella Drudi, trovando anche una linea poetica. Perché questo è anche un film contro la violenza, perché Claudio ha anche una bella storia d’amore con la sua fisioterapista [Anne Garcia n.d.r.] che ha un marito violento e riesce a uscire da questa situazione grazie a Claudio.

È un film che pur trattando una materia importante – una materia in qualche modo pesante perché il karate è anche uno sport violento -, in realtà racconta anche una storia d’amore e di profonda amicizia: quella tra Claudio Del Falco e Stefano Maniscalco, che è un karateka pluripremiato. Quindi è anche un film ottimista, un film d’amore, di grande amicizia. E quando io e la sceneggiatrice siamo andati a fondo del karate, abbiamo scoperto che oltre all’aspetto fisico c’è anche un’ideologia, una sorta di “religione” che è molto importante. E lo abbiamo capito anche grazie a questi campioni che ci hanno aiutato. Io ho aiutato loro, con la regia, a dare una linea di credibilità e loro hanno aiutato me ad avere una sorta di comprensione di ciò che c’è dietro il karate.

Oltre all’importanza di questi vari messaggi di cui mi hai parlato, nel film vedremo anche tanta azione?

Sai, io sono conosciuto principalmente per i film d’azione. Qui l’azione c’è ma non è tanto fine a se stessa, ma è un’azione che lega tutti i sentimenti, le relazioni e i rapporti. Non è l’azione per l’azione, ma veicola un messaggio di vita che spero sia chiaro per il pubblico. Questo che stiamo vivendo è un momento drammatico: non ne possiamo più della violenza, della guerra e di tante altre cose. Però questo è un film positivo, nel senso che alla fine il film finisce bene. Diciamo che io ero noto per i film che finivano male [ride]. Qui è un po’ come nel primo Palermo – Milano in cui alla fine i protagonisti ce la fanno: lottano contro tutto e tutti ma ce la fanno. Così è in questo film: il protagonista ne esce vincente.

Un po’ come nei film di supereroi, in cui il protagonista alla fine ce la fa.

Sì, è una sorta di supereroe [ride]. Anche perché lui è proprio un supereroe, perché certo non ha avuto una vita normale. Lo vedi tutto massiccio, baldanzoso, però in realtà è fragile, è una persona fragile come tutte le persone che hanno un’umanità. Però la sua fragilità la vince attraverso lo sport. E attraverso la sua potenzialità fisica trova anche la sua potenzialità mentale.

Hai utilizzato il tema del karate raccontando questa storia vera. Film come Karate Man ce ne sono pochi in Italia. Per quale motivo, secondo te, questo genere non prende piede nel nostro Paese?

Negli anni Settanta c’è stata tutta una grande ondata di film sul karate, molto spettacolari ma che, però, non andavano in profondità. La cosa che a me ha interessato più di tutto è stata proprio entrare in profondità, perché nel film c’è tutta la profondità del karate a livello filosofico. Ora, la maggior parte dei film italiani sono commedie che fuori dall’Italia la gran parte del pubblico non comprende, perché non si va in profondità. Spesso per esigenze commerciali si va poco in profondità. Noi ci siamo proprio immersi nel mondo del karate. Questo è un momento in cui la gente vuole evadere, ma non seguendo i vecchi sistemi, vuole farlo trovando un’identità. Io ci ho provato, ho provato a cercare una chiave diversa. Il karate poi è conosciuto in tutto il mondo. In Italia ci sono centinaia di scuole, i genitori mandano i figli a lezione di karate. È un qualcosa che la gente coltiva, però non se ne parla, io invece ci ho provato. Questo, ed è importante, è un film patrocinato da Sport e Salute, dal collegio dei karateki nazionali e noi abbiamo lavorato coi personaggi veri, tutti personaggi noti nell’ambito del karate.

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Karate Man. Ponnto Production, Ipnotica Film

Come hai appena detto, hai lavorato con dei campioni veri all’interno del tuo film, volevo sapere com’è stato confrontarsi e dirigere sul set soprattutto uno di loro, cioè Stefano Maniscalco.

Con Maniscalco mi sono trovato subito bene, subito molto a mio agio. Lui mi ha detto che non aveva mai recitato e quindi ha cercato di essere il più naturale possibile. Per mia esperienza personale, avendo diretto attori importanti, so che un attore recita il personaggio. Lui non doveva recitare il personaggio, doveva essere il personaggio. Quindi per trovare la giusta dimensione l’ho fatto recitare nella maniera più naturale possibile. Quando ci si trova di fronte un attore navigato, un regista chiede alcune cose o richiede alcuni sotto-testi. Un attore che non ha esperienza deve cercare di essere se stesso, deve cercare la sua dimensione e applicarla alla storia. Bisogna quindi lavorare sulle verità. Un po’ come è successo anche con Claudio, che comunque aveva avuto delle esperienze cinematografiche. Ha dovuto trovare la sua dimensione. Non è stato complicato, ma ci abbiamo dovuto lavorare e alla fine la verità è uscita fuori in maniera semplice. Io sono un regista molto pratico, vado dritto per la mia strada.

Credi che questo film possa avere come target anche il pubblico dei giovanissimi?

È un film che va bene per tutti, anche per i ragazzi. C’è un messaggio rivolto proprio ai giovani e c’è anche il personaggio di Claudio bambino, coi suoi ricordi. E c’è un messaggio anche per loro ed è che c’è la possibilità che il karate sia una scuola, oltre che fisica, anche mentale. Alla prima del film poi verranno tanti giovani atleti che fanno karate. Quindi il film è rivolto a una platea aperta, è rivolto anche a loro e non solo a un pubblico adulto, è veramente per tutti. Spesso il karate viene scambiato in qualche modo per uno sport violento, invece non è vero, ci sono moltissime regole. Il film è quindi aperto al pubblico dei ragazzi, magari accompagnati dai genitori, in modo che poi possano parlarne insieme. Spero che da questo film nasca un’apertura anche da parte dei giovanissimi. Girando un film si deve pensare anche al messaggio e questa volta io ci credo, poi spero che venga recepito.

 

 

 

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