Shaft: recensione del film Netflix con Samuel L. Jackson
Recensione del quinto capitolo della saga di Shaft, diretto da Tim Story e sbarcato su Netflix
Shaft recensione. Netflix, in collaborazione con nomi importanti come Warner Bros. e New Line Cinema, produce e distribuisce (in Italia) Shaft, diretto da Tim Story (La bottega del barbiere, I Fantastici 4) e scritto a quattro mani da Kenya Barris e Alex Barnow. È la quinta incursione nella saga e sequel dell’omonimo film del 2000 di John Singleton con Samuel L. Jackson nei panni di John Shaft II, nipote del personaggio originale. Fu un lavoro a metà fra seguito e reboot della trilogia degli anni settanta. Così come nella pellicola precedente, Story tenta un aggiornamento della serie ai nostri tempi cambiandone radicalmente dimensione e contenuti.
La prima apparizione cinematografica dell’investigatore, interpretato da Richard Roundtree, fu in Shaft il detective del 1971, caposaldo della blaxpoitation e adattamento dell’omonimo romanzo da parte di Gordon Parks che, un anno dopo, diresse il seguito Shaft colpisce ancora. Per la regia di John Guillermin il fallimentare terzo capitolo Shaft e i mercanti di schiavi del 1973. Le difficoltà nell’ammodernare ancora un volta un personaggio di culto come quello di John Shaft, ideato dallo scrittore e sceneggiatore premio Oscar Ernest Ralph Tidyman come espressione critica di un tempo diverso e oramai passato, sono evidenti e gravano sul prodotto.
Indice:
Shaft recensione – Conflitto generazionale
Nel 1989, a New York, John Shaft II, la compagna Maya (Regina Hall) e il figlio neonato sopravvivono ad un agguato. La donna, temendo per l’incolumità del bambino, abbandona il detective. Venticinque anni dopo il figlio J.J.Shaft (Jessie T. Usher), cresciuto senza il padre affianco, lavora come esperto di cyber-security per l’FBI. La misteriosa morte per overdose di un caro amico trascina il giovane, desideroso di far luce sul tragico evento, in una spirale di torbidi affari. Sfruttando le capacità informatiche e l’aiuto dell’amica Sasha (Alexandra Shipp), J.J. tenta di addentrarsi in un pericoloso dedalo di eroina e malavita ma l’inesperienza gioca a suo sfavore. Ritrovatosi con le spalle al muro, il ragazzo chiede, riluttante, sostegno al padre e si ritrova a dover fare i conti con ideologie e metodi poco ortodossi di un genitore istrionico, fra passato, presente e futuro.
Questo conflitto generazionale si impone come leitmotiv della pellicola ma è foriero di gag antiquate, riflessioni preconfezionate e cliché mai domati né posti brillantemente. Di questo parallelismo spesso forzato e basato unicamente sull’idiosincrasia fra lo stereotipo del vetusto, reazionario e xenofobo, e del prodotto della Generazione Y, ingenuo ma apparentemente progressista, non rimane nulla allo spettatore se non qualche siparietto che richiama una caratteristica del primo Shaft e ne mette a confronto il carisma. Rielaborando Leonardo Sciascia, l’umanità è divisa in due categorie: chi attraversa in mezzo alla strada senza esitazione e fastidi e chi si fa suonare ed insultare pure sulle strisce.
Shaft recensione – Tre uomini e (neanche) uno Shaft
Il primo e fortunato Shaft era scaltro, burbero, ma dal cuore giusto. Non nacque, come il trittico di Story, per guardare con banale sarcasmo al passato ma per criticare il presente. Personaggio carismatico, irresistibilmente erotico (aveva anche rapporti con donne bianche) e atletico fu compendio delle tipiche qualità dell’eroe bianco ma con prospettiva rovesciata. Questo continuo gioco con il luogo comune era allo stesso tempo didattico e divertente, funzionale allo charme atipico di un detective afroamericano. Roundtree si muoveva sinuoso in un quadro noir e sporco, cantando l’emancipazione sulle note della memorabile colonna sonora firmata da Isaac Hayes. Per fortuna, almeno il famoso tema musicale è stato mantenuto.
Tripartita la sagace caratterizzazione dell’interpretazione originale, il risultato è fallimentare. Il giovane, protagonista non approfondito ma legato alla solita e nauseante storiella d’amore, abbandona rapidamente tratti da romanzo di formazione riducendosi a semplice comic relief mai in evoluzione, stanco e irritante (surreale la sequenza nella discoteca) contraltare del padre; il maturo riprende il canovaccio della prova precedente e, grazie ad uno script monotematico ma calzante, sopra le righe e scurrile salva la pellicola dal collasso totale strappando qualche risata o gag interessante; il vecchio è invece relegato ai margini, a contentino, a un cameo farsesco e inefficace, inutile ai fini della trama e senza alcuna reminiscenza dell’iconico ruolo che ha reso la serie un cult.
Shaft recensione – Mercato della nostalgia
Shaft è la perfetta espressione del cinema hollywoodiano causticamente nostalgico, stantio e privo di estro. È un mercato stanco con niente da dire ma soldi da incassare, invaso da ogni sorta di sequel, reboot e remake, che dissangua saghe passate o propone scadenti live-action di vecchi film animati. Un’operazione sbagliata per natura che ha provato a rivitalizzare un famoso oggetto di un tempo andato, mortificandolo. Ancor più della pellicola di cui è seguito, gli elementi sociali, morali e politici sono decostruiti: non in un ottica contemporanea bensì quasi interamente abbandonati. Un cambio di registro, dopo anni, è fisiologico. Eppure questo Shaft avrebbe dovuto cambiare nome, essere materia altra, non costruire il suo impianto sulla strumentalizzazione di un ingiustificato richiamo al passato.
Tim Story, già regista di alcuni buddy-movie, non fa altro che assemblare, in maniera impalpabile sia per regia che messa in scena (le sparatorie sono sempre scolastiche e prive di pathos), sequenze da cabaret slegate fra loro. Ci si trova dalle parti del suo Poliziotto in prova e del Bad Boys di Michael Bay. Eppure, recentemente, sia The Nice guys di Shane Black che Blackkklansman di Spike Lee sono stati prove, imperfette ma godibili, di come si possa guardare al passato in maniera fruttuosa e dialettica ripartendo da uno dei generi più tipicamente statunitensi. In particolare, nel film di Lee, il richiamo alla blaxpoitation, l’unione di dramma sociale e commedia e la riflessione a cavallo fra prima, adesso e dopo erano elementi ben amalgamati.
Conclusione
In questa formula tragicamente seccante spicca l’interpretazione di Samuel Jackson, visibilmente dilettato da un divertissement zeppo di parolacce e battute ad effetto. Unico vero catalizzatore della comicità, riesce per l’ennesima volta a riproporre una prova di buon livello e a tenere a galla, a intermittenza, il pubblico. Eppure le battute volgari e sporche tentano di giungere ad una tagliente scomodità, senza mai sfiorarla. Non basta sessismo da quattro soldi, ridicolizzare omosessuali e giovani o accusare il proprio figlio di “lavorare per i bianchi” per rendere efficacemente scorrette e sconvenienti battute e idee ripetitive e, sostanzialmente, innocue.
È logico che questo lavoro porti con sé un necessario confronto con ciò che lo precede. Il film di Singleton aveva iniziato a scavare la fossa di una storia difficilmente ravvivabile, anche se con qualche guizzo e interpretazione azzeccata (oltre a Jackson anche Christian Bale e Jeffrey Wright nei panni dei due villains), questo pone la lapide. Trama altalenante tra sconcertante prevedibilità e passaggi illogici, personaggi senza spessore, deriva crime originata da un assunto privo di impatto emotivo, oltre ad un cattivo (Isaach De Bankolé) quanto mai invisibile, sterile e fastidiosamente pretestuoso. Una manovra talmente confusa e sconclusionata da non essersi posti nemmeno il problema di avere tre pellicole omonime in una pentalogia.
Voto - 4.5
4.5
Lati positivi
- Attenzione monopolizzata dal solito "metodo Jackson"
- Qualche gag divertente
Lati negativi
- Fa a pezzi definitivamente il mito di Shaft
- Trama scarna, banale e prevedibile fin dai primi momenti
- Personaggi vuoti e freddi
- Direzione di Tim Story piatta anche nelle scene d'azione
- Il tentativo di giocare con gli stereotipi non funziona quasi mai