Mademoiselle: recensione del film di Park Chan-wook
Recensione del film sudcoreano Mademoiselle, distribuito dopo tre anni in Italia
Arriva in Italia, a tre anni di distanza dalla sua presentazione al Festival di Cannes 2016 (che quest’anno ha premiato Parasite, coreano), Mademoiselle, l’ultimo film di Park Chan-wook. Dopo la solo parziale riuscita di Stoker, primo progetto in lingua inglese, il cineasta sudcoreano torna in patria scrivendo e dirigendo Mademoiselle (The Handmaiden, titolo originale Ah-ga-ssi); finalmente distribuito, anche se in un numero esiguo di sale, da Altre Storie. È una libera trasposizione del romanzo Ladra (Fingersmith) di Sarah Waters, pubblicato nel 2002 e già adattato in un’ omonima Serie TV dalla BBC nel 2005. A differenza dell’opera cartacea, il film non è ambientato nella Londra Vittoriana di metà ‘800 bensì in Corea nel 1930, durante l’occupazione Giapponese. Primo film in costume per l’acclamato direttore della Trilogia della Vendetta. Ecco la nostra recensione di Mademoiselle.
La pellicola è un visivamente raffinato e tecnicamente ineccepibile noir erotico, fondato su più livelli ed animato da un frizzante e preciso gioco a incastri. La ricostruzione della magione dove si svolge la vicenda e la regia conturbante e geometrica seducono lo spettatore tramite una cura estetica barocca e maniacale. Di primo acchito, il radicale processo estetizzante messo in moto dal cineasta di Seul potrebbe apparire come semplice manierismo e tracotanza, ma non è così. Il concetto di bellezza, che permea e rende patinati luoghi, eventi e individui, viene progressivamente scardinato, dettaglio dopo dettaglio, e studiato nelle sue degenerazioni. Il racconto squarcia la superficie come fosse il Velo di Maya, liberando la verità e mettendo a nudo ideologie, esistenze, sentimenti, corpi.
Indice:
Mademoiselle recensione – Trama
Anni ’30, Corea occupata dal Giappone. Un abile truffatore coreano, spacciatosi come un nobile decaduto di nome Conte Fujiwara (Ha Jung-woo), riesce ad insinuare in una lussuosa villa la giovane ed abile ladra Sook-hee (Kim Tae-ri, attrice esordiente capace di una prova incredibile) sotto il nome di Tamako. La magione è governata dall’ambiguo e autoritario Kozuki (Cho Jin-woong), uomo arricchitosi facendo da interprete per i Giapponesi durante l’invasione ed ora collezionista di stampe e libri erotici. L’obiettivo è di circuire Hideo (Kim Min-hee), candida nipote del proprietario, lasciarla sedurre al finto Conte e rinchiuderla in un manicomio per ottenerne l’eredità. Torbidi segreti e il fiorire di amori impensabili porteranno allo sviluppo, in tre atti, di un dramma libero nella messa in scena e coinvolgente nell’intreccio, riflettendo su culture, politica ed esistenza umana.
Nonostante la durata di oltre due ore, Park Chan-wook non perde quasi mai il controllo di una narrazione frastagliata ed avvolgente, capace di ribaltare con eleganza e violenza certezze e punti di vista. La trama si dipana fra sprazzi meditativi e cambi di rotta repentini, i quali spezzano la placidità di una regia che si compiace nel risaltare gli splendidi interni, i tessuti, i gioielli, le pareti, i mobili di legno scricchiolanti, osservando con sagacia ogni anfratto dell’abitazione che, coadiuvata dalla fotografia dello storico collaboratore Chung Chung-hoon, prende tinte gotiche e fa danzare la luce tra le raffinate vetrate. Si instaura così un lento ma fitto disvelamento che, parallelamente, apre al nostro sguardo cuori dei personaggi, tematiche della pellicola e luoghi oscuri della residenza.
F come Falso
Il sistema circolare della narrazione di Mademoiselle, che ripiega su se stessa sia nei tempi che negli spazi, costruisce un’atmosfera straniante e inafferrabile. Ogni elemento in scena è pregno di ambiguità, e il dualismo fra realtà e finzione si fa sempre più marcato. I personaggi si interrogano con naturalezza ed astuzia sulla differenza fra gioielli ed opere d’arte autentiche e false: cosa comporta per la sensibilità di un individuo conoscere se un fatto, un oggetto o un relazione siano veri o no? Una persona, poiché inesperta o disinteressata, potrebbe gioire anche dell’apparenza, della superficie, dell’effimero. Una donna, ignara di aver ricevuto un paio di orecchini falsi ma ben riprodotti, sarebbe comunque felice di indossarli se adeguati al suo ideale estetico.
Questo sono gli uomini, oggetti d’arte vuoti e patinati che si svendono per i propri interessi, come ingabbiati in una eterna casa d’aste. Gli scaltri sono carnefici, gli altri vittime. Park Chan-wook carica di emozioni, erotismo e morbosità questo teatro di individui dai doppi volti, sfuggenti e malinconici, che danzano un ballo in maschera. Il dramma dell’apparire si fa sempre più tagliente. Bellezza e falsità si confondono: per l’ereditiera è una maledizione (rinchiusa com’è nella sfarzosa magione); per la giovane ladra una possibilità di arricchimento; per Fujiwara, senza scrupoli, e il vecchio Kozuki un metodo per giustificare ambizioni, immoralità e terribili perversioni maschiliste e violente. Da questo gioco di imitazioni potranno sfuggire solo sguardi carichi di sentimento, di amore, di sincerità.
Un triste passato
Svelato l’approccio concettuale con cui Park ha plasmato Mademoiselle, è chiaro come il cineasta abbia anche voluto dare uno spaccato del suo popolo negli anni ’30 e del rapporto con la civiltà nipponica. L’occupazione della Corea da parte del Giappone, durata circa cinquanta anni, è una delle tante collisioni che i due popoli hanno avuto nel corso della storia fin dalle loro origini (parlando di falsità: si pensi che l’orgoglioso paese del Sol Levante non permette analisi scientifiche sui cadaveri della prima dinastia imperiale per timore che possano rivelarsi discendenti Coreani). Soprusi, conquiste, guerre e schiavitù hanno marchiato indelebilmente un popolo che, tramite il proprio cinema, vuole ancora pensare al sofferto rapporto passato con gli stranieri. Sempre del 2016 è il sudcoreano Goksung – La Presenza del Diavolo di Na Hong-jin, horror dove xenofobia e paure fra i due paesi sono analizzate.
A partire dalla villa, fusione di architettura britannica, orientale e giapponese che simboleggia l’incontro fra diverse culture, fino al continuo, stridente, alternarsi fra lingua giapponese e coreana (importante dettaglio della versione originale), l’ambientazione storica si rende evidente tanto quanto la contrapposizione etnica. Ma è lo zio Kozuki ad essere l’elemento umano più riprovevole: avido collezionista di romanzi erotici e mobilio nipponico, disprezza la cultura coreana, i suoi usi e costumi e ne bandisce per sempre la lingua dalla sua dimora. A causa di questo isterico delirio di superiorità la nipote Hideo è stata rinchiusa in una gabbia dorata. È un luogo talmente ossessionato dall’infrangere le proprie icone, per riprodurre asetticamente e aggressivamente un patrimonio altrui, da esser diventato glaciale, senza anima.
Conclusione – Mademoiselle recensione
Giunti alla fine di questa recensione, manca un solo elemento da analizzare. Mademoiselle è un film senza briglie, libero, dolce, sensuale. È un film di umani contro umani, di uomini contro donne e di sesso contro amore. Il rapporto fra le donne, inizialmente sfuggente ed intrigante, ha il proprio apogeo in alcune delle migliori scene di amore saffico mai viste. Potenti, passionali, eccitanti, mediate da uno sguardo maschile ma non maschilista. Le sequenze di sesso, che non si spingono oltre il softcore, sono talvolta dei raffinati dipinti, talvolta un’esplosione di colore e veemenza. Ancora una volta Eros e Thanatos, puro e impuro, maschera e emozioni si scontrano per dar vita a immagini senza freni. A seconda dello spettatore, potrebbero tanto infastidire per la loro (talvolta) esagerata insistenza quanto stupire per la loro bellezza.
Park Chan-wook non è un vuoto esteta che asserve a sé gli oggetti. Il cineasta si pone al loro servizio e sfrutta la superficie della realtà per trascenderla. Il suo lavoro è riassumibile nello sguardo artistico della dama Hideko: dipingendo una natura morta, la sua sensibilità le permette (forse) di far trasparire con facilità, dal suo disegno, elementi apparentemente invisibili come la maggiore succosità di una particolare pesca all’interno di un cesto pieno. Un’ottima opera, dunque, capace di colpire nel segno e di governare un imponente impianto estetico e narrativo tessendo i giusti fili. Diversi difetti, comunque, permangono: alcuni passaggi troppo leziosi, elementi non del tutto approfonditi e un terzo atto sottotono e meno frizzante, ma passano in secondo piano dinnanzi ad una pellicola coraggiosa ed ammaliante.
Voto - 8
8
Lati positivi
- Visivamente raffinato e coinvolgente
- Narrazione noir ben orchestrata
- Ottime interpretazioni
- Senza freni
Lati negativi
- Ultimo atto meno riuscito
- Non tutti gli elementi sono del tutto approfonditi
- Alcune sequenze potrebbero infastidire