El Jockey: recensione del film di Luis Ortega – Venezia 81
Un surreale viaggio alla ricerca di sé stesso, in fuga da sé stesso, per diventare sé stesso
Dopo essere passato a Cannes nel 2018 nella sezione Un Certain Regard con il suo L’Angelo del Crimine, l’argentino Luis Ortega apre la sezione concorso della 81esima edizione della mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia con El Jockey, di cui vi proponiamo la recensione. Il film, prodotto tra i tanti da Benicio del Toro, è la parabola del fantino Remo Manfredini in una corsa alla ricerca della propria identità.
Ispirato dal Vagabondo delle Stelle di Jack London e dalla nascita del suo primo figlio, Ortega mette in scena un personaggio alla ricerca di sé stesso, incapace di stabilire con convinzione chi sia il suo vero Io. Ad inseguirlo nelle sue peregrinazioni ci sarà Abril, interpretata da Ursula Corbero (Tokyo de La casa di carta), qui alla sua prima esperienza festivaliera. Surreale, ironico ed inaspettato, El Jockey è una celebrazione della vita e delle svariate forme nelle quali può manifestarsi.
Indice
Trama: in fuga da sé stesso – El Jockey recensione
Remo Manfredini è una leggenda, il fantino più forte di tutta l’Argentina ed il suo capo, Sirena, non ha nessuna intenzione di farselo scappare. Anzi, addirittura crede in lui, così tanto da preferirlo alla sua altrettanto forte amante, Abril, anche lei un fantino e anche lei un portento nelle corse. Ma Remo è ormai da tempo in una spirale autodistruttiva, tra alcool e ketamina non è capace di stare al mondo da sobrio, figuriamoci di correre. Mentre la ragazza, incinta di suo figlio, è indecisa se tenerlo o meno per continuare a correre, il boss spinge affinché lui torni a vincere come un tempo. Remo si trova nel mezzo.
Incapace di prendere il controllo della propria vita decide di fare l’unica cosa che gli viene bene e monta di nuovo a cavallo. Ora che gli occhi di tutti sono puntati di nuovo su di lui e le pressioni di Sirena si avvicinano sempre di più a vere minacce di morte, Remo non può sbagliare. Eppure sbaglia. Tutto il suo mondo va a rotoli, ma quella che sembra una disfatta totale si rivela essere l’occasione della Vita. Morire per rinascere ancora.
Ciclo di rinascita – El Jockey recensione
El Jockey si apre in una locanda, dove il nostro protagonista dorme tranquillo circondato da individui apparentemente usciti dal Freaks di Todd Browning. Perché per quanto sia noto ai più come il fantino leggendario, Remo è questo, un freak, un disadattato che ha avuto la (s)fortuna di nascere di bell’aspetto. La bellezza è però un concetto relativo e ci vuole poco a capire che quest’ultimo abiti un corpo in cui non si trova a proprio agio. Non sappiamo molto sulla sua storia, se non che è stata così dolorosa da non poter essere raccontata e che ad un certo punto il suo talento è stato imbrigliato dal boss. Sirena d’altronde è un personaggio più simile a Remo di quanto possa sembrare, come molti in questo film è insoddisfatto della propria vita, o forse del corpo che la natura gli ha dato, così ossessionato dal prendersi cura dei propri pupilli al punto tale (forse) da desiderare di essere madre.
In fondo è di questo che parla El Jockey, del desiderio di rinascita di un uomo, che può farsi donna o bambino e ricominciare da zero per prendere le redini di ciò che non ha mai sentito suo. Più volte durante il film viene ripetuto che nessuno è nessuno, come se il concetto d’identità non esistesse e tutto ciò che ci contraddistingue è il solo fatto di essere in vita. Una vita che viene osannata tante volte (addirittura troppe) da diversi personaggi, definita, forse in modo semplicistico, bella, che sia passata interamente su un letto di ospedale o caratterizzata da disturbi debilitanti, che si abbiano pessimi genitori o che non ne si abbiano affatto. Il regista sembra volerci dire che c’è sempre un modo per rinascere ed essere qualcun altro, a patto che si resti attaccati alla vita.
Uscire dal circuito – El Jockey recensione
Il piglio del film non è realistico, né lineare proprio come in un sogno, ma l’ironia che caratterizza tutta la pellicola aiuta a smorzare l’assurdità di ciò che si vede e le massime sulla vita sparate dai personaggi, che altrimenti risulterebbero fin troppo retoriche. Capita a volte che il senso delle immagini venga riassunto da una battuta, come se il regista avesse l’ansia che quanto mostrato potesse non essere capito. Fortunatamente in rari casi ciò si dimostra un limite, ma talvolta la sensazione è che non ce ne fosse realmente il bisogno. Ortega approccia il viaggio di Remo con uno stile surreale, senza mai spiegare nulla eppure mostrando abbastanza da permetterci di decifrare la storia del protagonista.
In seguito ad un forte trauma questi vagherà per la città affrontando gli echi della sua psiche che riemergono e lo inseguono. Il correre a cavallo è infatti metafora della fuga, una fuga da un passato doloroso, dall’ombra/riflesso di un padre violento, o dell’inseguimento di una madre che lo ha abbandonato. Il punto è che in questo suo correre Remo gira in tondo proprio come all’ippodromo e in un modo o nell’altro finisce sempre male (nella bocca del leone). Il corpo è l’involucro in cui è ingabbiato e assieme ad esso si porta dietro un nome, una reputazione, una storia da cui cerca di fuggire e l’unico modo per farlo è quello di uscire dal circuito, alla curva andare dritto, anche a costo di schiantarsi (forse proprio per schiantarsi). E un cavallo di nome Mishima sembra il giusto compagno per farlo.
El Jockey
Voto - 7.5
7.5
Lati positivi
- Lo stile ironico e surreale di Ortega
- La fuga alla ricerca di un'identità come tema portante
Lati negativi
- Alcune battute risultano non necessarie