Film stranieri: “Il Club” di Pablo Larraín (Cile)
Continua il percorso della nostra rubrica alla scoperta e valorizzazione dei film stranieri. Dopo aver parlato, nel primo appuntamento, del sudcoreano “Goksung – The Wailing” adesso ci spostiamo in Cile.
Il film in questione è “Il Club” di Pablo Larraín, regista considerato uno dei più talentuosi della sua generazione. Il film del 2016 tratta tematiche forti e delicate, come gli abusi sessuali della Chiesa e l’omosessualità, introducendosi in aspetti molto più difficili da cogliere come la frustrazione, la vergogna e la sofferenza della reclusione.
E in questo articolo analizziamo questo prodotto, tra i migliori film stranieri degli ultimi anni e Orso d’Argento alla Berlinale 2015.
Film stranieri: “Il Club”
Trama: l’espiazione attraverso l’isolamento
In una località marittima cilena si trova una casa. All’interno una sorta di comunità: quattro preti non più giovani e una suora. Tutti questi personaggi sono “sconsacrati”, non possono più officiare per colpa dei peccati, punibili penalmente, commessi da ognuno di loro. La Chiesa non può permettere che questi crimini vengano alla luce e per proteggersi dallo scandalo isola questi elementi in una quasi prigionia. Ma cosa hanno commesso? Le accuse sono pedofilia, rapimento e altro. Ognuno di loro giustifica le proprie azioni e le difende. Si crea però una complicità tra i membri di questo “club”: arrivano, insieme, pure ad “allenare” un cane per partecipare a corse clandestine, guadagnando.
Ma la stabilità dura poco. Ma quando un nuovo prete arriva in casa, succede un fatto tragico che scuote tutti. Per riparare viene mandato un nuovo ospite, colui che dovrà far luce sulla vita e sui segreti della comunità e soprattutto scoprire di più sul tragico accaduto, provando a far fuori la comunità, chiudendola. Lo spietato gioco adesso può cominciare.
Larraín e la tensione
Tensione. La parola adatta è questa. Adatta per esprimere, forse non pienamente, le sensazioni che ci attaccano durante la visione. La tensione espressa dal regista di “Jackie” in questo film è assillante, straziante, crea un disordine nella nostra mente che ci fa andare avanti a fatica, con sempre meno respiro. E Pablo Larraín ne “Il Club” decide di raccontare un’aria misteriosa come i suoi personaggi, malata, snervata, distrutta e pronta a distruggere, o a farlo ancora. Il grigiore della fotografia, se pur magnifica, stressa, irrita e estremizza la bomba emotiva che arriva dal già pesante contesto e dalla narrazione. Montaggio e movimenti di macchina non aiutano, procedendo lenti e quasi spaesati. L’immersione è così totale.
E le inquadrature, i campi fissi sui volti dei protagonisti ci fanno notare come non ci sia il più classico controcampo dei dialoghi, non esiste l’interazione: come se i volti quasi privi d’animo parlassero ad uno specchio (la macchina da presa), come se l’unico confronto giusto e necessario in quel momento sia quello con se stessi. La potenza espressiva è incredibile, che nei film stranieri, specie in quelli del regista cileno, esplode interiormente come una bomba. Una bomba d’emozioni, spesso incoerenti tra di loro.
Una cruda evocazione
Moltissimi film stranieri hanno il pregio di parlare del proprio paese, in questo caso implicitamente il Cile, e di problemi e realtà crude che spesso sono difficili da conciliare con l’impatto con il grande pubblico. Il regista cileno ci immerge in una dimensione difficile. I temi trattati sono delicati e gli argomenti spigolosi. Egli però non da giudizi, non da sentenze nei confronti dei suoi personaggi: il giudice non è né lui né le sue immagini, siamo noi. Riesce in questo intento portando a compimento una delle premesse fondamentali del cinema, ovvero l’evocazione. Essa ci trafigge, ci fa male e ci esaspera, infastidendoci e permetto alle nostre menti di giudicare inevitabilmente, anche senza volerlo.
Giudizio non semplice, come sembra apparentemente. Ne “Il Club” tutti sono colpevoli, tutti sono carnefici. Ma è anche vero che è difficile distinguerli dalle vittime. Perché nell’articolazione della trama, diventano vittime di un complesso gioco più vasto. Il meccanismo di potere esercitato dalla Chiesa può essere paragonato all’altro grande film, che poco riguarda il filone dei film stranieri, che è “Il caso Spotlight” di Tom McCarthy. Le analogie sono esplicite per i temi e per la curiosa distribuzione vicinissima temporalmente. Ma i due film si distinguono per una piccola cosa: Il caso Spotlight si batte per una giustizia che “Il Clan” sospende non schierandosi esplicitamente.
Luci e tenebre
“Il Club” si apre con i versi tratti dalla Genesi: “Dio vide che la luce era cosa buona, e separò la luce dalle tenebre”. Ma in questo film, ciò che Dio ha fatto non dura e non importa. Il discorso è articolato attorno all’uomo, che al contrario di Dio invece sceglie le tenebre. Sceglie il male e non riesce a resistere. Prova in ogni modo l’espiazione, la redenzione e la “salvezza” ma è schiavo, schiavo di un pensiero di libertà, che sia una libertà che vada contro alla condizione di prigionia, o che si associ a alla libertà sessuale. Ed è costretto alla repressione dei suoi pensieri in quella casa che più che vicina a Dio, sembra essere un inferno davanti al mare. Un inferno generato dalla Chiesa che così può proteggersi dagli scandali e allo stesso tempo proteggere quegli elementi dalla giustizia e dalla gogna.
Un film pesante, incredibile per l’impatto e la potenza visiva e narrativa. Uno dei migliori film stranieri degli ultimi anni, meritatamente premiato al Festival del cinema di Berlino nel 2015 e che lancia un già noto e amato Pablo Larraín nell’olimpo dei registi della sua generazione. Una fortissima botta di emozioni contrastanti che sono già chiarissime nel malinconico e disperato discorso, il più importante, fatto dal personaggio di Sandokan nel primo segmento di film: crudo, violento, disgustoso, esasperato, disturbante, triste, deprimente, tragico e senza mezzi termini.