Fino all’ultimo indizio: recensione del thriller con Jared Leto
Un intrigante poliziesco che scava nella psicologia dei suoi personaggi
Dopo il suo esordio su HBO Max e in sala negli Stati Uniti, arriva anche in Italia l’ultimo lavoro di John Lee Hancock (The Blind Side, Saving Mr. Banks). Fino all’ultimo indizio, di cui vi proponiamo la recensione, è disponibile nelle migliori piattaforme di streaming adibite al noleggio. In assenza della sala il grande cinema non si ferma. Proprio Fino all’ultimo indizio (The Little Things, il titolo originale) potrebbe rientrare tra le sorprese delle nomination dei prossimi Oscar. Buone chance di esser candidato le ha Jared Leto (già nella cinquina per il miglior attore non protagonista ai Golden Globe), nel suo ruolo migliore dai tempi di Dallas Buyers Club (con il quale vinse agli Academy Awards). Insieme all’attore che vedremo presto nella Snyder Cut, altri due premi Oscar, Rami Malek e Denzel Washington. Di seguito la nostra recensione di Fino all’ultimo indizio, disponibile online per il noleggio.
1990. Il vice sceriffo della contea di Kern, Joe Deacon (Washington), viene mandato a Los Angeles prelevare delle prove legate ad un crimine. Lì conosce il detective capo Jimmy Baxter (Malek). Quest’ultimo convince il primo a seguirlo sulla scena di un omicidio e Deacon nota somiglianze con un caso irrisolto avvenuto anni prima. Questi avvenimenti continuano, a distanza di molto tempo, a tormentarlo. Per questo motivo decide di prendere qualche settimana di ferie e restare in città per aiutare Baxter. Pian piano alcuni piccoli dettagli aiutano i due a restringere il campo portando dritti verso un certo Albert Sparma (Leto). L’uomo lavora in un negozio di riparazioni vicino alla scena del crimine e ogni elemento, così come il suo atteggiamento, parla chiaro ma le prove scarseggiano. Nella grigia Los Angeles, i due metteranno a dura prova la loro mente pur di non soccombere per il proprio tormento.
Indice
Una moda che non passa mai – Fino all’ultimo indizio, la recensione
Il tempismo molto spesso può diventare fatale. Fino all’ultimo indizio, pur riuscendo ad uscirne bene, viene indubbiamente ostacolato dalla prova del tempo. Perché dalle prime battute fino ad alcuni momenti nella parte conclusiva, il film non può che ricordare – per narrazione, toni e personaggi – i lavori di David Fincher; in modo particolare Seven. Più interessante è scoprire che il titolo in questione, uscito nel 2021, è stato scritto ad inizio anni Novanta (Seven è del 1995). Non è una giustificazione né tantomeno un tentativo di dare maggior valore ad un’opera che comunque, oltre a queste considerazioni, è un buonissimo film anche se con un gusto già assaporato. Inevitabilmente la realizzazione di un prodotto scritto trent’anni fa non può, in buona parte dei casi, stupire o dare la sensazione di nuovo. Ma in un certo senso, proprio la sua affascinante anima ancorata al passato diventa un’arma a doppio taglio.
Il film di John Lee Hancock sfrutta bene questo suo legame con gli anni Novanta; radicato nella scrittura di Fino all’ultimo indizio soprattutto dal punto di vista della lineare quanto dettagliata costruzione drammaturgica. Si spoglia parzialmente delle vesti da crime urbano discostandosi dal poliziesco classico (che però cita senza troppe remore). Decide di andare verso un qualcosa più vicino allo sporco raccontato dalle opere di Dashiell Hammett. L’opera così riesce a ritagliarsi nel profondo una precisa identità, minata in superficie dal suo aspetto derivativo ma in realtà molto più stratificata di quanto non possa sembrare. Hancock mostra un sentimento bivalente verso una Los Angeles talvolta protagonista più dei personaggi che la animano: la ama, studiandone quasi filologicamente ogni ambiente – e provando a trarre giovamento da ognuno di essi – ma allo stesso tempo la odia e rigetta quel marcio che si insinua nelle vite dei suoi cittadini fino a distruggerli.
Dalla parte opposta
Non ci sono buoni né cattivi nel film di John Lee Hancock. Come in ogni noir metropolitano che si rispetti è l’ambiguità delle situazioni e dei personaggi a fare da padrona. Il regista qui confeziona quello che probabilmente è il suo prodotto più autoriale, quello che mette insieme ciò che di buono aveva già fatto vedere, a sprazzi, nei precedenti lungometraggi. Emerge la sua voglia di esplorare lo spazio e il tempo nel suo thriller, di farci vagare da un luogo all’altro, dilatando e velocizzando costantemente il ritmo; portandoci a vivere insieme agli stessi protagonisti una storia che sembra non trovare mai la luce in fondo al tunnel (i legami con la filmografia crime di inizio secolo saltano all’occhio velocemente, da Zodiac a Memories of Murder). E riesce in questa operazione, almeno in parte, sacrificando l’azione e vantaggio di una più ricercata introspezione.
Se il già citato Zodiac giocava con la psicologia del serial killer e i nervi degli agenti, qui la mente analizzata è quella di due dal lato della legge. Al centro della storia c’è sempre l’uomo. Il caso, il killer e forse le stesse vittime, passano parzialmente in secondo piano. Il male e le ingiustizie sono il miglior pretesto per indagare la psicologia dei protagonisti; per far emergere le loro ossessioni, le insicurezze e soprattutto il passato, costellato non solo di buon servizio. Due protagonisti agli antipodi ma perfetti per stare insieme sulla scena e per far nascere un confronto generazionale che tocca l’etica lavorativa ma soprattutto umana. Non sempre scavati nel migliore dei modi, i due agenti non riescono mai a far breccia nel nostro cuore, proprio per via di una scrittura che ci permette di restare sempre vigili e di dubitare di ogni singolo personaggio e aspetto.
Le piccole cose – Fino all’ultimo indizio, la recensione
Alla fine di questa recensione di Fino all’ultimo indizio va però detto che Hancock anche qui porta con sé la fin troppo leggera incisività espressa fin ora. Sono quelle piccole cose (a cui fa riferimento il titolo originale) che compromettono la perfetta riuscita del film. Una fra tutte la caratterizzazione psicologica dei personaggi che non trova una misura omogenea, specie nel confronto tra i protagonisti. Denzel Washington è sempre incisivo in scena, pur non andando mai oltre i confini di un’interpretazione rigorosamente contenuta che però soffre particolarmente l’ambiguità del personaggio nella prima parte, migliorando nettamente dopo, con il riaffiorare dei ricordi più controversi. Rami Malek non fa molto per aiutare il suo Jimmy; personaggio centrale per l’evoluzione della storia, specie nell’ultimo atto, ma le cui idee sono sviluppate solo approssimativamente e soprattutto con troppa fretta. È con l’ingresso in scena di Jared Leto che il film cambia volto.
Leto riesce egregiamente, con metà del minutaggio e delle battute rispetto ai colleghi, a trainare il film sulle sue spalle fino all’amaro finale una storia che rischiava di accartocciarsi su sé stessa. Il suo personaggio è inquietante, sadico e il perfetto contraltare per due personalità instabili e corrotte nell’animo. Sparma è l’incarnazione cinematografica del fastidio, prendendosi gioco di chiunque senza apparentemente motivo e mettendo alla prova i nervi di tutti. Fino all’ultimo indizio di John Lee Hancock è decisamente un buon thriller, ben scritto e diretto, oltre che fotografato alla perfezione per restituire la grigia Los Angeles degli anni Novanta. Ogni certezza viene passo dopo passo sgretolata con bruschi cambi di marcia e direzione fino ad una conclusione tutt’altro che conciliante. Un epilogo che nella sua cruda realtà non potrà far altro che dividere. Peccato per le piccole cose, quelle che, parafrasando Deacon, alla fine ti fregano.
Fino all'ultimo indizio
Voto - 7
7
Lati positivi
- La prova di Jared Leto che regge su di sé tutta la seconda parte
- La crime story dal sapore anni Novanta sa di già visto ma riesce a funzionare e a divincolarsi grazie ad una buona scrittura
- La scelta di sacrificare l’azione si rivela ottima, dando così maggior peso ai momenti di riflessione e al massacro interiore
Lati negativi
- L'atto conclusivo che nel suo sviluppo frettoloso perde di efficacia
- Lo scarso approfondimento psicologico del personaggio interpretato da Rami Malek e la sua stessa interpretazione, sottotono rispetto ai colleghi