Judas and the Black Messiah: recensione del film di Shaka King
Fred Hampton e un informatore dell'FBI al centro di un film che parla di rivoluzione, potere ed identità
Potenziale protagonista della prossima notte degli Oscar, il nuovo film di Shaka King arriva finalmente anche in Italia. Judas and the Black Messiah, di cui vi proponiamo la recensione, è destinato a diventare uno dei titoli di punta di questa stagione cinematografica. Disponibile dal 9 aprile di esclusiva digitale, il film vede tra i suoi protagonisti gli eccezionali Daniel Kaluuya (Get Out, Black Panther) e Lakeith Stanfield (Atlanta, Sorry to Bother You). Tra i tanti comprimari spiccano Jesse Plemons, Martin Sheen e Dominque Fishback. Il film segna l’esodio di King alla regia di un lungometraggio per una major e vede Ryan Coogler e Charles D. King tra i produttori. Un’appassionante storia di sopravvivenza ed identità, solo fugacemente citata ne Il processo ai Chicago 7 di Aaron Sorkin. Di seguito la recensione di Judas and the Black Messiah, candidato a sei premi Oscar tra cui quello per il miglior film.
La vicenda narrata prende le basi da eventi realmente accaduti. William O’Neil si trova, suo malgrado, a collaborare con l’FBI per non andare incontro ad una severa pena per alcuni crimini commessi. Il giovane diventerà così un informatore infiltrato nelle Black Panther dell’Illinois. Egli è lì per tenere d’occhio Fred Hampton, Presidente carismatico e leader sempre più scomodo per i piani alti americani. O’Neil sembra avere così l’occasione per salvare la pelle e divertirsi alle spalle delle pantere che, ingenuamente, iniziano pian piano a fidarsi di lui. Passano i giorni, però, e nella mente di quest’ultimo iniziano ad aleggiare i primi dubbi sul suo operato. Le Black Panther lottano per qualcosa che condivide? L’uomo sa bene che gettare la spugna e interrompere il tradimento dall’interno significherebbe gettarsi in pasto all’FBI. Inizia così la parabola discendente di un uomo, sullo sfondo di un’America che sta vivendo alcuni dei suoi giorni peggiori.
Indice
Per cosa combattiamo?
Judas and the Black Messiah mette in scena qualcosa di molto più grande di ciò che può sembrare in superficie. Come nel racconto biblico, anche nel film di Shaka King al Messia viene associato Giuda, colui che ne venderà la pelle, tradendolo. Il film non ci mette molto – anzi, procede velocemente in tal senso – ad entrare nel vivo della questione. Il punto è che più si procede con la visione e più diminuiscono le certezze. Il confine tra bene e male diventa labile, così come quello tra giusto e sbagliato e le domande iniziano ad affiorare. Fra tutte, “cosa saresti disposto a fare pur di salvare la pelle?” e “per cosa combatti?”. Perché, in fondo, Judas and the Black Messiah è un film di guerra e di soldati, nel quale contano le scelte che facciamo ma soprattutto le motivazioni alla base di esse.
E nell’opera candidata a sei premi Oscar questo aspetto viene affrontato giocando con le analogie e le differenze. Una contrapposizione tanto lineare (forse troppo) nella struttura quanto articolata nelle dinamiche interiori, che ci mette davanti due modi diversi di vivere. Due modi diversi di intendere la libertà e di concepire la propria persona in relazione a qualcosa di più grande. C’è chi in questo qualcosa crede e lotta fino alla morte per avere ciò che desidera. C’è invece, sull’altra sfonda dello stesso fiume, chi alle pene non vuole arrivare, anche a costo di tradire sé stessi e il proprio spirito. Due opposti che pur lottando, forse inconsciamente, contro un grande nemico comune, non parlano la stessa lingua. Ed è esemplare, a tal proposito, notare come non ci sia mai un’interazione diretta e significativa tra i due, escludendo le scene corali.
Scarier than a gun – Judas and the Black Messiah, la recensione
I due opposti diversi e differenziati anche visivamente, dalle immagini nelle quali è innestato il loro carattere. La traduzione visiva del senso di colpa del primo (specie nei dettagli delle espressioni e nell’isolamento scenico rispetto agli altri) messa a confronto con il carattere da leader del secondo (visto come una guida per il popolo, come il messia del titolo) è chiara e diretta.. Qui gioca un ruolo fondamentale la splendida grana noir della fotografia di Sean Bobbitt che valorizza ogni aspetto dell’atmosfera senza però rubarne la scena; dalla tensione alla convivialità, dal buio dell’anima di O’Neil alla grinta bellica di Hampton. Sono proprio i due personaggi che scandiscono i tempi di un ritmo costantemente alto. Sono le loro storie, le loro motivazioni, il grande meccanismo dietro le azioni a rendere Judas and the Black Messiah sempre dinamico e vivo.
Non un film sulle Black Panther, come si penserebbe facilmente. Neanche un biopic sulla figura di Fred Hampton (che comunque trova più spazio di quanto non ne abbia trovato in passato). Non un’opera che tenta di assolvere un carnefice né tantomeno glorificare una vittima, anche se la frequente contrapposizione visiva prova a suggerirlo. La forza del film sta infatti nello sviscerare qualcosa di più stratificato. Judas and the Black Messiah parla di potere – quello dei vertici politici, delle istituzioni, così come quello del popolo riunito – ma soprattutto di noi stessi, delle nostre volontà. O meglio, di come vediamo noi stessi quando ci relazioniamo con quel potere che ci porta a lottare proprio contro esso stesso. Una guerra che accomuna anche il Messia e il suo Giuda, in diverso modo, e che stimola una necessaria riflessione circa la manipolazione politica e sociale e l’influenza sulle nostre scelte.
Giuda e il Messia – Judas and the Black Messiah, la recensione
Pur aiutato da una colonna sonora perfetta in ogni occasione e da un montaggio che cuce le toppe di una sceneggiatura a tratti precipitosa, Judas and the Black Messiah plasma il suo essere attorno ai suoi protagonisti. Si riporta poco dei singoli e del loro background; è però importante ai fini dello sviluppo capirne le motivazioni, per cosa lottano. Sono le performance che fanno da perno per tutto il film. Il lavoro sui gesti, gli sguardi e l’intonazione di ognuno dei protagonisti rende dirompente ogni personaggio e ogni processo relazionale più di quanto non faccia la scrittura. È il caso del personaggio di Fred Hampton. Daniel Kaluuya riesce a dare credibilità al suo personaggio non solo durante i vigorosi comizi politici ma soprattutto nei momenti più umani e naturali, in quelli nei quali si comprende quanto il silenzio, a volte, sia più decisivo dei monologhi plateali.
Ma quando per presentare il Messia si sceglie il Giuda, finisce per far diventare quest’ultimo il vero protagonista. Lakeith Stanfield interpreta quel personaggio funzionale per unire due mondi in contrapposizione ma col passare dei minuti diventa anche il fulcro espressivo e morale della vicenda grazie ad una performance intensissima, nervosa e tesa, contratta ma mai esagerata. Funzionano benissimo gli attimi in cui il film sceglie di prendersi delle pause dalla struttura ordinaria e di calarsi nella sfera personale; di raccontare sia la fragilità umana che, parallelamente, la spietatezza. Di mostrare la sincerità di Dominique Fishback e della sua Deborah – una scena, quella della lettera, vale da sola il prezzo del biglietto – così come la moralità del personaggio interpretato da un impeccabile Jesse Plemons. Portandosi però spesso verso un equilibrio basato su un linguaggio e una forma efficaci ma meno incisivi del contenuto.
Judas and the Black Messiah
Voto - 7.5
7.5
Lati positivi
- Le performance di tutto il cast, in particolare quelle dei protagonisti Daniel Kaluuya e Lakeith Stanfield
- La forza del messaggio e la riflessione che si porta dietro
- L’elegante fotografia di Sean Bobbit
Lati negativi
- Una struttura fin troppo classica per un film che nell’anima è ben più articolato