La vita sul nostro pianeta: recensione della nuova serie doc di Netflix
La serie prodotta da Steven Spielberg e narrata da Morgan Freeman ripercorre la storia dell'evoluzione sul nostro pianeta tra realtà e finzione, immagini dal vero e CGI
La storia del nostro pianeta è anche la storia delle specie che lo hanno abitato. Prende il via da questa premessa La vita sul nostro pianeta, l’ultima serie doc di Netflix disponibile sulla piattaforma dal 25 ottobre. Un viaggio di otto episodi ambizioso e per certi versi controverso che parte dalla nascita della vita sulla Terra e arriva fino a noi, tracciando una linea lunga centinaia di milioni di anni attraverso un mondo in continuo cambiamento ed evoluzione.
Dopo Il nostro pianeta e il più recente L’universo svelato (con cui condivide il narratore Morgan Freeman) questa volta Netflix, in collaborazione con la Amblin Television di Steven Spielberg, si cimenta con una serie decisamente audace. Il racconto di una lotta per la vita e la sopravvivenza che mantiene la forma del documentario naturalistico anche quando ricorre per forza di cose alla ricostruzione. Un viaggio suggestivo e sorprendentemente coerente che mischia assieme presente e preistoria, riprese dal vero e immagini in CGI (curate dall’Industrial Light & Magic), restituendo un quadro plausibile, sebbene estremamente semplificato e spettacolare, sulla storia dell’evoluzione nel nostro pianeta.
Indice:
Trama – La vita sul nostro pianeta recensione
Le specie animali che esistono oggi sono solo l’1% di quelle mai esistite. Eppure è possibile ritrovare in queste le tracce dei loro antenati, di tutte quelle creature che sono rimaste indietro nella spietata lotta per la sopravvivenza. È questa la scintilla alla base di un viaggio che comincia dal presente e va a ritroso fino all’alba dei tempi, fino a quando le prime forme di vita cominciarono a svilupparsi negli oceani. Alla ricerca di quelle specie scomparse senza le quali non saremmo mai potuti esistere.
Dai trilobiti alle termiti, dall’allosauro al coccodrillo, dagli archaeropterys ai fenicotteri, fino ai maiaceti e ai loro più celebri discendenti, le balene, prende così piede un viaggio in cui presente e preistoria dialogano tra loro, costruendo corrispondenze (quasi) inedite attraverso milioni di anni, lungo la storia di un pianeta e dei suoi stravolgimenti epocali. Un mondo, fatto di abissi primordiali, foreste preistoriche e distese di lava, che si confonde col nostro, nell’eterno presente di una storia che pare dispiegarsi davanti ai nostri occhi in tutta la sua suggestiva interezza.
Un documentario “totale”
A ben guardare, nonostante le premesse, non c’è grande differenza tra La vita sul nostro pianeta e una serie documentaria a suo modo tradizionale come poteva essere Il nostro pianeta. Una constatazione paradossale se si pensa che la nuova serie Netflix usa i classici motivi e stilemi dei documentari che l’hanno preceduta anche per mettere in scena le sue ricostruzioni preistoriche. Forse sta proprio in questo il principale punto di interesse della serie, l’aver adattato a una forma consolidata anche quello che le era estraneo e che non si poteva, di fatto, documentare.
Più mockumentary che docufiction, La vita sul nostro pianeta diventa così il tentativo titanico di creare il documentario naturalistico perfetto. Un oggetto impossibile capace di vedere non solo in ogni luogo ma anche in ogni tempo. Spaziando dagli abissi primordiali all’apocalittica fine dei dinosauri, dalle abitudini comportamentali del tirannosauro a quelle degli smilodonti, la serie traccia così le coordinate di una storia fatta di eventi fortemente interconnessi, tra cataclismi e rinascite, slanci verso il futuro ed eredità del passato.
Lo spettacolo prima di tutto
Un aspetto, quello della “totalità”, che rende la serie più vicina a prodotti come Cosmos – Odissea nello spazio piuttosto che ai documentari classici, senza però l’intento fortemente divulgativo che contraddistingueva il lavoro presentato dall’astrofisico Neil deGrasse Tyson. Perché La vita sul nostro pianeta, al pari dei documentari Netflix che l’hanno preceduta, è prima di tutto una serie spettacolare che punta tanto sul consueto senso di meraviglia suscitato dalla natura quanto sul fascino prodotto dalle nuove possibilità tecniche e da una CGI sempre più mimetica e fotorealistica (per quanto lo consentano le inevitabili limitazioni di una produzione streaming).
È in questo rapporto che si gioca la sfida de La vita sul nostro pianeta, nella sua capacità di rendere invisibile il passaggio tra realtà e finzione, trasformando la prima in qualcosa di più fittizio e “costruito” (l’uso narrativo delle immagini e la “drammatizzazione” del comportamento degli animali) e la seconda in qualcosa di più realistico.
Una nuova tendenza
Un connubio, quello tra documentario e fiction, riprese dal vero ed effetti speciali, che in questa serie trova una sua unitarietà e una sua ragione d’essere. Facendosi inevitabile punto di arrivo di una tendenza – non necessariamente condivisibile – iniziata da tempo. Una tendenza che, mettendo da parte la divulgazione come comunemente la intendiamo, cerca prima di tutto la spettacolarizzazione e la meraviglia, il coinvolgimento emotivo dello spettatore prima (e forse a discapito) di una sua più compiuta elaborazione intellettuale.
Eppure, comunque la si pensi, resta innegabile il fascino di una serie decisamente audace ed ambiziosa, che guarda tanto alla docufiction quanto al linguaggio innovativo della simulazione. Un (non)documentario che ci mostra per la prima volta un pianeta “svelato” nella sua impossibile interezza, pienamente visibile tanto nello spazio quanto nel tempo, dove un presente caratterizzato da inquinamento e specie a rischio si mischia inevitabilmente a un passato lontanissimo ma fatto della nostra stessa sostanza.
La vita sul nostro pianeta
Voto - 7
7
Lati positivi
- Seppur in maniera estremamente semplificata la serie riesce a darci un'idea coerente e suggestiva della storia dell'evoluzione nel nostro pianeta
- L'accostamento di immagini dal vero e CGI è gestito con abilità e intelligenza
Lati negativi
- Sgretolandosi il confine tra documentario e finzione rischia di perdersi definitivamente anche quello tra divulgazione e spettacolo