Quando il film stravolge il libro. Recensione di Inferno di Ron Howard con Tom Hanks e Felicity Jones
Nell’ultimo mese abbiamo visto nelle sale diversi adattamenti cinematografici di libri che hanno goduto un enorme successo in tutto il mondo: da American Pastoral, trasposizione da parte del regista esordiente Ewan McGregor dell’opera che è valso a Philip Roth il Premio Pulitzer per la narrativa nel 1998, a La ragazza del treno, l’ultimo film di Tate Taylor (The Help) tratto dal romanzo di Paula Hawkins, passando per Inferno di Ron Howard, basato sull’omonimo best-seller di Dan Brown. Terzo film della cosiddetta Robert Langdon Series (dopo Il codice da Vinci e Angeli e demoni), Inferno è l’ultima pellicola diretta e prodotta dal regista di A beautiful mind, reduce dal successo dei mesi scorsi del documentario musicale The Beatles: Eight Days a Week – The Touring Years e dal mezzo flop conseguito al box office lo scorso anno con Heart of the Sea – Le origini di Moby Dick. Nell’intento di garantire continuità con i precedenti film della serie, Howard richiama alla base Tom Hanks nei panni di Robert Langdon e lo sceneggiatore David Koepp, già autore di Angeli e Demoni,e favorisce l’ingresso di new entry del calibro di Felicity Jones (che a dicembre vedremo protagonista in Rogue One: A Star Wars Story), Omar Sy (Quasi Amici, Jurassic World), Ben Foster (Quel treno per Yuma, The Program), Irffan Khan (The Millionaire) e Sidse Babett Knudsen (protagonista del film francese La fille de Brest di Emmanuelle Bercot, uno dei film più apprezzati all’ultima Festa del Cinema di Roma). La storia c’è, il cast stellare pure: i presupposti per fare bene, insomma, ci sono tutti. Peccato che manchi il film. Infatti, quello che nelle intenzioni di Dan Brown dovrebbe essere un thriller con un motivo di fondo accattivante, il sovraffollamento del pianeta a causa dell’aumento incontrollato della crescita della popolazione, viene ridotto ad un action movie tipicamente americano da parte di uno sceneggiatore (che, ricordiamolo, ha curato anche lo script di film come Mission: Impossible, Jurassic Park e Spider-Man) che molto probabilmente avrà letto il libro solo superficialmente. Infatti, l’azione prevale per una buona parte del film, caratterizzata da inseguimenti, scontri e neanche un briciolo di momento in cui è la staticità a prevalere sulla dinamicità: è come se i personaggi abbiano già in mente cosa fare, dove devono andare, senza fermarsi neanche un attimo per riflettere. In altre parole, sembra che essi perdano la propria umanità, risultando essere appartenenti ad una specie non ben definita che vive in un presente distopico rispetto al nostro. Particolare rilievo assume (o almeno dovrebbe) la figura di Robert Langdon, interpretato da un quasi irriconosibile Tom Hanks (che rivedremo nelle prossime settimane in Sully, l’ultimo film dell’evergreen Clint Eastwood che può valergli l’ennesima nomination agli Oscar), che viene rapidamente inghiottito nell’azione, arrivando al punto di sembrare un supereroe senza superpoteri. Quando l’azione non è presente, invece, la sceneggiatura mostra le sue evidenti lacune strutturali, colmate grazie ad una retorica vuota ed inutile, che fa largo uso di espressioni riciclate, già sentite e risentite altrove, e ad una presenza massiccia di nozioni storico-culturali, le quali tra l’altro in alcuni casi risultano essere totalmente false, o quantomeno adatte ad un pubblico, come quello americano, che non dispone come noi dei fondamenti della storia e della cultura italiana negli anni del Medioevo, né tantomeno hanno ben chiara la figura di Dante (ci risulta alquanto difficile, infatti, credere che il Sommo Poeta abbia scritto l’Inferno soltanto per conquistare Beatrice, visto che quest’ultima all’epoca della redazione della cantica era già defunta). Insomma, un film che risulta essere profondamente diverso dal best-seller da cui è tratto, il quale è stato eccessivamente banalizzato da uno script approssimativo, che rinuncia alla complessità di base del testo per ingraziarsi il pubblico attraverso i mezzi che da qualche tempo contraddistinguono il cinema a stelle e strisce, tra cui anche quello della pubblicità ad alcuni prodotti o servizi che sponsorizzano la produzione (comunque multimilionaria) del film. L’esempio più lampante, in questo caso, è la scena del treno, non presente nel libro ma evidentemente necessaria nell’economia della narrazione, se non altro per garantire quei cinque minuti di visibilità di stampo promozionale neanche tanto implicita ad una nota impresa italiana privata che opera nel campo dei trasporti ferroviari ad alta velocità, rivelandosi perciò essere fine a se stessa. Pesante, dunque, l’assenza di Akiva Goldsman, storico sceneggiatore di Howard che ha lavorato insieme con Koepp nei due film precedenti della saga, la cui impronta avrebbe potuto cambiare nettamente le sorti della pellicola, magari attraverso l’approfondimento dei rapporti tra i protagonisti, in particolare quello tra il Bertrand Zobrist di Ben Foster e la Sienna Brooks di Felicity Jones, il cui personaggio è stato decisamente svilito da una sceneggiatura sciocca ed ingenua: nel libro viene infatti sottolineato come questa dottoressa giovane ed attraente, dotata di un’intelligenza straordinaria, che aiuta Langdon a sfuggire ai suoi inseguitori e nella risoluzione degli enigmi, si sia sentita emarginata ed incompresa per tutta la sua infanzia, soffrendo molto per queste ragioni. Ciò avrebbe senza dubbio giustificato le sue azioni che, al primo impatto, sembrano essere incomprensibili. Abbastanza indefinita è anche la relazione tra Langdon e Elizabeth Kinskey, che viene ingenuamente paragonata a quella tra Dante e Beatrice: parallelo storico davvero poco efficace e che, in sintesi, racchiude in sé la sostanza del film. Altro flop, quindi, per Ron Howard, il cui ultimo successo risale al 2013 con il lungometraggio Rush, e che rivedremo all’opera nel biopic Zelda, dove verrà messa in scena la vita della scrittrice Zelda Fitzgerald, sposa dell’autore de Il grande Gatsby Francis Scott Fitzgerald, interpretata dal premio Oscar Jennifer Lawrence. Riuscirà Ron Howard a invertire questo trend negativo? Staremo a vedere. Tuttavia, una cosa, almeno per il momento, è certa: i tempi di Apollo 13 e Frost/Nixon – Il duello sembrano essere soltanto un ricordo vago e lontano.