The Greatest Showman – Recensione del film con Hugh Jackman
Film Post vi propone la recensione di The Greatest Showman. La corsa a gli Oscar 2018 non è ancora ufficialmente iniziata. Tuttavia molti possibili film e attori che riceveranno le candidature sono già oggetto di pronostici da parte di critica e spettatori. Inoltre la serata dei Golden Globe si avvicina e dopo questa potremmo iniziare a tirare le prime somme. In forza del successo di La La Land l’anno scorso, anche quest’anno qualche produttore ha voluto puntare sul musical.
Recensione di The Greatest Showman!
Indubbiamente il clamore mediatico, di critica e di pubblico riscosso da La La Land ha messo di nuovo sotto i riflettori un genere che nel terzo millennio aveva avuto fortune alterne. Il musical. Genere di non poca complessità artistica, con cui è facile scadere nel banale e che richiede una sapiente scrittura per non far risultare balli e canti come forzature nella storia. Così quando uscì il trailer di The Greatest Showman, nel vedere il volto di Hugh Jackman siamo stati tutti un po’ felici. Infatti l’attore australiano non è nuovo al musical, nel 2012 interpretò Jean Valjean in Les Misèrables. Il film valse l’Oscar alla meravigliosa Anne Hathaway. Tuttavia ad Hollywood forse non si era di nuovo pronti ad investire stabilmente in grosse produzioni cantate e ballate.
Oggi le cose sono cambiate. Partendo dal lavoro di Baz Luhrmann (Romeo + Giulietta e Moulin Rouge!), per arrivare al coraggioso musical jazz di Damien Chazelle (qui la recensione), possiamo oggi parlare del nuovo film di Michael Gracey con protagonista l’ex-Wolverine. L’attore interpreta P. T. Barnum, un uomo cresciuto in povertà che, mosso dall’amore per sua moglie e le sue figlie, rischia il tutto per tutto. Non si fa scoraggiare nemmeno dalle cattive congiunture dell’economia statunitense. Riesce infatti ad ottenere un prestito per aprire un museo, innovativo, fatto di statue di cera, esotiche per la popolazione americana. Ma gli affari non vanno bene e così, un po’ fortuitamente, Barnum decide di reinventare il suo museo. Un museo che poi diventerà un tendone, il primo Circo della storia.
The Greatest Showman e il coraggio di sognare
E’ proprio dal circo di P. T. Barnum che dobbiamo partire per la nostra recensione di The Greatest Showman. Negli spettacoli di intrattenimento del business man abbiamo tutto ciò che possiamo aspettarci da uno show circense. Elefanti, leoni, colori sgargianti e sopratutto i freaks. Si ci sono proprio tutti i freaks del circo che vi aspettereste: dalla donna barbuta all’uomo lupo; il nano e l’uomo tatuato fino ai migliori trapezisti del mondo. Sembra tutto una grande festa, dove finalmente i reietti della società possono mostrarsi senza vergogna e guadagnarci anche qualcosa. Se non fosse che Jackman, un po’ inspiegabilmente, perde la bussola. Abbandona amici e famiglia per ottenere l’assenso dell’alta società. Così dopo essere stato alla corte della regina d’Inghilterra, Vittoria, decide di intraprendere una tournée con la più famosa cantate d’Europa. Vuole farla conoscere anche in America, ed essere finalmente accettato dai ricchi.
Questa insensata voglia di rivalsa sulle classi sociali più alte e un, non bene delineato, affetto per la cantante Jenny Lind (Rebecca Ferguson), metteranno a rischio il suo Circo, il legame con sua moglie e le sue due figlie. Ma non temete, il nostro affezionato protagonista, riuscirà a rinsavire. Sistemarà tutto così che il film si possa chiudere con un bel E vissero tutti felici e contenti. Jackman con la sua famiglia; i freaks che possono liberamente esprimersi (o così pare); infine anche il socio di P. T. Barnum, interpretato da Zack Efron, può vivere la sua storia d’amore sfidando le convenzioni sociali.
Dove ho già visto tutto questo?
Siamo stati sbrigativi nella trama, ma anche ad una prima e poco attenta visione la domanda che tutti si porranno guardando The Greatest Showman è: “ma dove ho già visto tutto questo? “. La rivalsa dell’uomo che arriva dal niente, che fra mille alti e bassi poi riesce finalmente a vivere felice con la sua famiglia, è una storia vecchia come il Cinema stesso. Già King Vidor ne La Folla del 1928 mostrava una storia così, firmando un’opera irripetibile e che tante volte si è tentanto di imitare (con alterne fortune aggiungerei). Per fino il dolly che chiude il film su Jackman e la moglie (Michelle Williams) sembra riecheggiare il capolavoro vidoriano. Ma non c’è nulla di male in voler ricalcare quella storia, fa sempre piacere vedere un lieto fine al cinema. Anzi di questo tempi ce n’è bisogno.
Inoltre “ma dove ho già visto tutto questo?” ce lo domandiamo anche nelle scene di ballo e di canto. Infatti le canzoni volutamente ritmate e cantante in chiave contemporanea, slegate quindi dal periodo storico della narrazione, sono forse il più grande insegnamento che il già citato Buz Luhrmann ha dato al cinema con i suoi musical. Su tutti si veda Romeo + Giulietta. In realtà, se oggi lo spirito del tempo sembra suggerirci che la serialità (al cinema e alla tv) è il vero motore che traina l’arte, allora va bene che questo film citi Luhrmann. Non grideremo al capolavoro, certo, ma a “citare” dei geni del cinema non si sbaglia mai, Quentin Trantino insegna.
Analisi tecnica
A fronte di quanto già detto, questo film non sarà il più innovativo che vedrete al cinema quest anno, tuttavia, va promossa a pieni voti la regia di Michael Gracey. Il regista sa come muovere la macchina da presa in questo genere di pellicole. Carrellate veloci per seguire il ritmo, a tratti indiavolato, dei balli. Ottima capacità di passare da un ambiente ad un altro, o da un tempo ad un altro, con delle dissolvenze che sono sicuramente la parte tecnica più apprezzabile del film. Ambientazioni, scenografie e costumi fedeli; la fotografia crea una voluta ambientazione fiabesca, anche se avremmo preferito uno Hugh Jackman con qualche ruga in più, a mostrare i segni della povertà sul suo volto. Le coreografie affollate (alla Luhrmann) sono godibili e, con il resto del comparto tecnico, danno al film un ottimo ritmo che vi farà passare 110 minuti con divertimento.
Le note dolenti sono una CGI troppo artificiale che, a volte, finisce per rovinare le sequenze più emotivamente trascinanti del film. Su tutti il problema fondamentale di questo film rimane però la sceneggiatura. Troppe cose rimangono inspiegate e incomprensibili. Ad esempio, P.T. Barnum passa dall’essere un sognatore, ad un affamato di denaro, poi un vendicativo e poi chiude la sua crescita come semplice uomo che ama la sua famiglia. Ma non riusciamo mai a carpire i motivi del mutare dei suoi atteggiamenti. Ad esempio, il suo rapporto con la cantante Jenny Lind; tra lei e Barnum c’è un’innegabile pulsione sessuale che sfocia però nel nulla più assoluto.
E poi ci sono Freaks, totalmente spersonalizzati, i loro pensieri e la loro visione del mondo sono inafferrabili. Stanno li sullo sfondo, fanno da cornice ad una storia che evidentemente non voleva parlare degli emarginati, a differenza di Wonder, nei cinema nello stesso periodo.
Riflessioni Conclusive
Chiudiamo questa recensione di The Greatest Showman con Hugh Jackman, con un insegnamento del film stesso. Lo spocchioso critico teatrale dirà infatti a Barnum che i suoi spettacoli, lontani dall’essere arte, avevano un grande valore perché facevano divertire le persone e le facevano sentire, in quella felicità, libere. Ecco, noi possiamo dire che quest’opera non è arte, come ve la aspettate, riflessiva e piena di lezioni di vita. Ma è arte nell’intrattenere infatti, al di là degli innegabili difetti, riuscirete a passare quasi due ore con una serenità spensierata che vi farà sentire liberi come i freaks di Barnum.
Riuscirete a sognare, insieme alla matura interpretazione di Zac Efron, un amore senza confini di ogni tipo. Riderete e vi sentirete grintosi come la corpulenta donna barbuta, unico personaggio di spessore, fra gli emarginati. Si non sarà il film dell’anno ma questa storia sulla nascita del circo vi darà il coraggio di sognare, almeno per qualche ora, prima di tornare nel serioso mondo della quotidianità.
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Rating - 6
6
The Good
- ritmo
- intrattenimento
The Bad
- mancanza di originalità
- sceneggiatura fallace
C’è solo una cosa che frega questo film: una durata di 110 minuti e tante storie interessanti da sviluppare. Grazie tante che alla fine è un corri corri per risolvere ogni situazione prima che suoni il gong (titoli di coda) Se la sua durata fosse stata un po’ più lunga, tipo Tutti insieme appassionatamente, per esempio, ci sarebbe scappato il capolavoro. Piccola nota sulle rughe: Pasquale, Jackman non dimostra proprio la sua vera età, non lo hanno spianato di lifting o messo i filtri sulla macchina da presa, ha proprio quella faccia lì nonostante i suoi 49 anni, è per Logan che hanno dovuto truccarlo da vecchio aggiungendo le rughe, sennò lo si vedeva uguale a come era 17 anni fa. Un Oscar per Les Misèrables, se lo sarebbe mertato pure lui e più della Hathaway, se non fosse che negli Academy Awards c’è una “certa mafietta” e dato che il contendente che glielo ha scippato era sponsorizzato niente meno che da Spielberg…beh, non sorprenda che Meryl Streep nemmeno ha letto la busta quando ha annunciato il vincitore, tra il Jean Valjean di Jackman e il Lincoln di Daniel Day Lewis c’era la stessa differenza che passa tra l’interpretare genuinamente un personaggio suscitando emozioni nello spettatore e lo scimmottare qualcuno con manierismo per sottolineare allo spettatore “guarda un po’ qua che bravo che sono”.
Concordo sulla questione della trama troppo densa per la durata del film. Per quanto riguarda la questione delle rughe intendevo dire che avrebbero dovuto aggiungerle con trucco o altri effetti, per renderlo un po’ più “umano”, a prescindere dal fatto che Jackman nella realtà le abbia o meno, mi scuso se non risultava chiaro dall’articolo.