Recensione Better Call Saul 3×01 – Mabel e la colpa delle indecisioni
Recensione a caldo di Mabel, primo episodio della terza stagione di Better Call Saul, diretto dal solito Vince Gilligan, da poco rilasciato su Netflix.
Torna Better Call Saul, serie televisiva spin-off del ben più conosciuto e apprezzato Breaking Bad incentrata sulle gesta del nostro avvocato preferito, Saul Goodman (interpretato da Bob Odenkirk). E lo fa con un primo episodio, Mabel, che riprende in toto il finale della seconda stagione coi relativi cliffhanger. Ci eravamo lasciati così: da un lato con l’amore fraterno di Chuck nell’estorcere la confessione di Jimmy; dall’altro con un Mike attonito di fronte al biglietto DON’T. Cosa sarà successo?
Mabel e le colpe dei padri.
Better Call Saul continua con la strada tracciata nelle prime due stagioni: tanta lentezza, ma anche tanta sostanza e costruzione. E’ forse questa una colpa? E’ una colpa essere il figlio di Breaking Bad? A mio modo di vedere, assolutamente no. In primis perché Better Call Saul, checché se ne dica, non è Breaking Bad ma soprattutto non vuole esserlo; in secundis perché anche lo stesso Breaking Bad, ai tempi, fu tacciato di una lentezza eccessiva nelle prime stagioni. Più in generale non faceva sicuramente della sua velocità o delle sue fasi action i propri punti di forza. E se pensate il contrario, beh, potete anche chiudere l’articolo.
Mabel e le colpe dei figli.
Nel dubbio questo Mabel, anagramma di blame (colpa), continua a riservarci poche parole ma tanti fatti. Ma Mabel è anche il libro che Jimmy ricordava, erroneamente, la madre gli leggesse da bambino, quando in realtà a farlo era Chuck (interpretato da Michael McKean). Tornano gli spettri dell’iperprotettività familiare, soprattutto del padre, nei confronti di Jimmy, e la sostanziale apatia nei confronti di Chuck; probabilmente l’iniziale germe che ha poi portato alla situazione attuale. Non soltanto: quei 10 minuti di tregua nella guerra tra bande ci aiutano ancora una volta a capire come non ci siano buoni o cattivi, e come la sceneggiatura non voglia farci pendere né da un lato né dall’altro. E’ la storia di persone quantomai reali e umane, che vanno incontro alle conseguenze delle proprie scelte, dei propri errori. E’ la storia di Jimmy e della sua evoluzione in Saul Goodman.
Caratterizzare al giorno d’oggi.
E’ chiaro, infine, come in un contesto così delineato regni l’indecisione, metaforizzata da un simbolismo assai concreto. E così troviamo un maturato Saul, nella sequenza che apre l’episodio, ancora indeciso sul se condannare un truffatore oppure aiutarlo; dall’altro una Kim (Rhea Seehorn) tesa tra il ricominciare (mettendo un .) continuare il periodo (con un ;) oppure prendersi una pausa (—). Ad emergere è Chuck, decisissimo nel farla a pagare a Jimmy, se non professionalmente quantomeno umanamente. A fugare ogni dubbio il sorrisetto, forse fin troppo rivelatorio, dello stesso Chuck dopo aver fatto ascoltare erroneamente la registrazione ad Ernesto: l’iniziale tassello di un piano ancora nebuloso. Perché Better Call Saul è anche questo: una sceneggiatura e una messa in atto forse addirittura più matura del padre Breaking Bad, che si avvaleva, sotto questo punto di vista, di eccessivi seppur congeniali deus ex machina. Ma soprattutto c’è una costruzione a più ampio respiro, incentrata su un’ottima caratterizzazione dei personaggi secondari. Se a tutto ciò aggiungiamo un sempre più bad-ass Mike (Jonathan Banks) che in nulla contro-traccia un potenziale Gus Fring (vi ricordiamo il suo ritorno) con uno dei piani più geniali di sempre, l’episodio non può che essere promosso a pieni voti.