I peggiori film del 2020 secondo la redazione di FilmPost
Scopriamo insieme tutti i flop cinematografici di questo interminabile 2020
L’anno che ci sta per salutare è senza dubbio uno dei più duri che l’umanità abbia vissuto nella storia recente. Il Covid-19 ha messo in ginocchio il mondo intero e tra i settori più colpiti figura anche il settore cinematografico. Molte sono le produzioni che si sono viste costrette a rimandare l’uscita nei cinema oppure a chiudere le lavorazioni in fretta e furia per evitare ingenti perdite economiche. Tutto ciò però non giustifica la bassa qualità di alcune delle opere che ci hanno accompagnato negli ultimi mesi. Abbiamo deciso quindi di raccogliere in un posto solo i peggiori film usciti nel 2020, per aver memoria di ciò che è stato e speriamo non sarà mai più.
Per poter essere inseriti all’interno di questa lista i film oltre che essere irrimediabilmente brutti devono essere stati distribuiti in Italia nel corso di quest’anno. Le protagoniste delle prossime righe saranno quelle pellicole uscite in sala (poche) e quelle uscite in streaming (molte) che si sono contraddistinte in negativo per un motivo o per un altro. Andiamo quindi a scoprire insieme tutti i flop cinematografici di questo interminabile 2020.
Indice
- Grandi produzioni che non ce l’hanno fatta
- I peggiori film italiani del 2020
- Solo una domanda, perché?
- Delusioni assortite
Grandi produzioni che non ce l’hanno fatta
Artemis Fowl
La vita del piccolo genio Artemis Fowl viene sconvolta da un ultimatum: suo padre è stato rapito e l’unico modo per riaverlo indietro è consegnare L’Aculos, il più importante manufatto elfico. Questo l’incipit di Artemis Fowl, la trasposizione del celebre ciclo di romanzi per ragazzi diretto da Kenneth Branagh. Se la Disney voleva avviare un nuovo franchise è partita davvero con il piede sbagliato. Artemis Fowl è un film monco, privo di approfondimento e decisamente al di sotto degli standard a cui Kenneth Branagh ci ha abituati. Nulla è approfondito, a partire dal mondo fantastico popolato da goblin, elfi e nani, fino ai protagonisti principali, Artemis compreso.
La totale assenza di background non permette allo spettatore di empatizzare con i personaggi né di apprezzare il contesto fantasy, fondamentale per un prodotto del genere. Inoltre il breve minutaggio della pellicola (soltanto 95 minuti) ha sicuramente contribuito al fallimento del progetto che da l’impressione di essere stato pesantemente tagliato. Persino la regia, affidata a Kenneth Branagh, è incredibilmente sottotono, con combattimenti confusionari ed effetti visivi dimenticabili. Insomma, forse rilasciare il film su Disney+ piuttosto che al cinema è stata la mossa giusta, anche se “colpo di fortuna” sarebbe una scelta di parole più azzeccata.
Bloodshot
Durante un’imboscata tesa da un killer psicopatico, il Marine Ray Garrison perde la vita insieme alla moglie Gina. Il dottor Harting della Rising Spirit Technology decide di fare di Ray il prodigio di punta del suo laboratorio; lo riporta in vita e grazie all’utilizzo della nanotecnologia lo trasforma in una macchina da guerra invincibile programmata per uccidere. Vin Diesel è protagonista del cinecomic di Dave Wilson nei panni di Bloodshot, il supereroe nelle cui vene scorrono naniti. Origin movie sul personaggio dei fumetti creato dalla Valiant Comics nel 1992, il film nasce con l’ambizione di dar vita a un franchise e finisce invece nella classifica dei peggiori film del 2020.
Questo perché banale, derivativo, con personaggi che più piatti non si può e sequenze d’azione frenetiche, confuse e prive del benché minimo pathos. Tutto poggia debolmente sulla performance di Vin Diesel che – voce profonda e sguardo assassino – pronuncia battute che arrivano direttamente dagli anni Novanta. Un nulla di fatto, un colpo mancato che, complice anche una durata eccessiva, mette a dura prova la pazienza dello spettatore.
Capone
Josh Trank sembra proprio cercarsele. Dopo il fallimentare reboot de I Fantastici 4, il regista americano ci riprova mettendo in scena la vita – o almeno, i momenti conclusivi di essa – del celebre gangster Al Capone. Capone, questo il titolo del film, racconta infatti il periodo successivo al suo rilascio. Il criminale è affetto da una grave malattia che sta compromettendo la sua salute psicofisica. Il corpo sembra non rispondere più ai suoi comandi e la mente vaga tra allucinazioni e il ricordo di un tesoro nascosto che lo lascia in pace. Il film vaga tormentato, così come la mente del suo protagonista, senza mai risultare incisivo e interessante agli occhi dello spettatore. All’interno del più classico dei biopic Trank prova ad inserire un certo sperimentalismo visivo e narrativo, non riuscendo però a tenere a freno una barca che presto va alla deriva priva di controllo.
Il ritmo soporifero non aiuta e la noia prevale per buona parte del film, accentuata dal distacco emotivo nei confronti di un protagonista poco incisivo. Inutile la performance di Tom Hardy che, pur rivelandosi di netto l’elemento più interessante, non riesce a risollevare le sorti cinematografiche di un Capone scialbo e privo di carattere. Un film che sembra non arrivare mai al nocciolo della questione, girando attorno a tanti elementi e non approfondendo nessuno di essi – soprattutto quelli che avrebbero meritato una maggiore attenzione, come i personaggi secondari. Capone è il perfetto ritratto del suo protagonista. Ha sì una forte volontà di agire ma si ritrova in un corpo sbagliato e malfunzionante.
Cats
Victoria viene abbandonata per strada e presto scopre la comunità di gatti Jellicle. La protagonista inizia così un viaggio alla scoperta di tutti i gatti del quartiere. Il regista ha dichiarato di aver concluso il film a ridosso della prima cinematografica, e si nota. A partire dalla qualità degli effetti speciali. Gli spazi e gli oggetti con i quali i protagonisti interagiscono non sembrano mai del tutto reali: la loro definizione paradossalmente è troppo definita e “perfetta” per poter assomigliare alla realtà. Inoltre, la pelliccia dei gatti non li ricopre completamente e lascia scoperti i tratti umani. Non si spiega, poi, perché Macavity resti sempre con una pelliccia indosso, così come Deuteronomy e Grizabella, anche se un felino dovrebbe già avere la propria.
Cats rientra di diritto tra i peggiori film del 2020 anche per la trama, dato che mancano dei passaggi importanti. Cosa significa davvero il termine Jellicle? Cosa aspetta il gatto che andrà nell’Heaviside Layer? Perché poi alcuni felini hanno poteri magici? E infine, perché Deuteronomy rompe la quarta parete e si rivolge direttamente agli spettatori, con una canzone che in ogni caso non è inerente alla storia di per sé? Questo musical aveva tutte le carte in regola per diventare memorabile, forte di una sua versione teatrale molto amata dal pubblico. Tuttavia, la piattezza dei personaggi e la quasi assenza di trama non funzionano nel passaggio al grande schermo.
Dolittle
John Dolittle è un grande veterinario ma dopo la morte della moglie cade in una pericolosa spirale depressiva. La sua tenuta viene così chiusa e lui si isola. Gli anni passano e la regina si ammala, come ultima ratio decide così di convocare Dolittle. La malattia lo insospettisce e lo spinge a partire alla ricerca di una cura. Il film finisce sostanzialmente qui.. Dolittle è un film pretenzioso e banale. Robert Downey Junior, reduce dall’enorme successo nei panni di Iron Man, veste i panni di un dottore pazzo che così pazzo poi non è. La componente peggiore è soprattutto la CGI, troppo invadente e visibilissima in ogni scena: i personaggi sembrano scontornati e gli attori più giovani appaiono in evidente confusione.
La trama non riesce minimamente a lasciare il segno per la sua banalità. Anche un bambino capirà dove si va a parare già a metà film. Il sentimento regnante è la delusione, soprattutto dopo l’ottima sequenza iniziale. Le scene di “azione” fanno venire il voltastomaco e lasciano un senso di vuoto esistenziale. Gli animali sono anche simpatici ma la loro estetica totalmente in CGI a lungo andare risulta fastidiosa. Premio alla scena più brutta dell’anno al prefinale, in quella maledetta caverna. Se non l’avete visto recuperate almeno quei dieci minuti, resterete esterrefatti.
Elegia Americana
Definito da parte della critica americana il film più brutto dell’anno e da altri il peggior film di Ron Howard, Elegia americana è senz’altro una grossa delusione. La storia è quella di J.D. Vance, del suo desiderio di riscatto e della sua voglia di affrancarsi da una famiglia scomoda e disfunzionale. Cresciuto con la madre Bev, dedita all’uso di sostanze stupefacenti, ha avuto nella nonna Mamaw il suo unico punto di riferimento. Quando Bev va in overdose, deve tornare al suo paese d’origine e fronteggiare il suo passato, mettendo a rischio l’avvio della sua carriera di avvocato.
Elegia americana è un film mediocre, popolato di personaggi trattati come stereotipi e del quale nemmeno due star del calibro di Glen Close e Amy Adams riescono a risollevare le sorti. Ron Howard firma un compitino che strizza l’occhio all’edizione di quest’anno degli Academy Awards e che non riesce a sintonizzarsi con le corde emotive dello spettatore. Soprattutto perché il tentativo è affidato a soluzioni retoriche, dialoghi che vorrebbero essere ispirati ma suonano falsi e punte di overacting (soprattutto della Adams) veramente fastidiose.
Mulan
Partita già con i peggiori auspici, la versione live-action di Mulan ha forse deluso più del previsto – fortunatamente non per le casse della Disney, visto l’ottimo incasso dell’early-access. Ciò che rende questa versione un disastro non è la distribuzione (certamente controversa) ma lo sviluppo stesso dell’opera. A metà tra il rifacimento totale e la copia identica (si veda, ad esempio, Il Re Leone) non riesce mai a trovare una sua identità, guardando in più direzioni e seguendole una per una, finendo però per sbagliarle tutte. E nel momento esatto in cui compie una scelta decisa, virando verso un cambiamento netto di stile rispetto all’originale, si vede l’appartenenza ad una cultura lontanissima da ciò che si vuol mettere in scena. Ne risulta un wuxiapian piatto, scimmiottatura che non restituisce né la magia del tanto amato classico Disney né, tantomeno, l’azione che una storia come quella dell’eroina cinese può offrire.
Un disastro condito dal male più atroce che poteva esser inflitto al film d’animazione del 1998: la perdita di quei valori militanti che facevano di Mulan uno dei simboli femministi Disney per eccellenza. Le consapevolezza del personaggio, la fuga dall’opprimente convenzionalità e il percorso di crescita di una donna guerriera vengono meno a favore di espedienti narrativi che si fatica decisamente a comprendere. A rendere meno amaro il boccone l’interpretazione del sempreverde Tzi Ma, capace di focalizzare le attenzioni del pubblico più della protagonista.
The new mutants
Illyana, Rahne, Samuel, Danielle e Roberto sono cinque adolescenti, ognuno con delle abilità particolari. Hanno scoperto da poco le loro mutazioni e per questo si trovano in un edificio segreto. A capo di esso c’è la dottoressa Reyes, che sembrerebbe dover gestire la struttura come una sorta di centro di recupero per giovani mutanti. Qui, nonostante le difficoltà, i cinque protagonisti riusciranno a costruire un gruppo solido, soprattutto tramite esperienze comuni. Emergeranno anche nuovi amori, ma il tutto senza un minimo di privacy. Infatti vi sono telecamere di sorveglianza ovunque e, come se il controllo continuo non bastasse, una barriera energetica sul
cancello d’entrata. I ragazzi si renderanno presto conto della trappola e che la loro unica via di uscita è la lotta.
The New Mutants non è solo tra i peggiori film del 2020, ma probabilmente è anche tra i peggiori film sui mutanti. Nato per rilanciare un franchise in declino, il lungometraggio sbaglia su tutti i fronti: troppi cliché, troppo breve, troppo didascalico, troppo citazionista, troppo commerciale. Una miriade di difetti dovuti in gran parte ad una lunghissima e travagliata gestazione.Si vociferava di un elemento horror e non ve ne è neanche l’ombra, si pensava ad una sceneggiatura originale e non ve ne è traccia. Una delusione totale.
I peggiori film italiani del 2020
È per il tuo bene
Remake italiano della commedia spagnola Es por tu bien del 2017, il film di Rolando Ravello distribuito quest’anno su Amazon Prime, racconta di tre padri incapaci ad accettare i relativi partner delle figlie. I padri in questione dovranno vedersela con un trapper, una ragazza vegana di colore, e un quarantenne dongiovanni. Nonostante il cast sia pieno di attori noti e navigati come Marco Giallini, Giuseppe Battiston, Vincenzo Salemme, Isabella Ferrarie Claudia Pandolfi e le dinamiche divertenti costruite sul trio Giallini-Battison-Salemme, il film non riesce mai a decollare.
Gli sforzi fatti non permetto a È per il tuo bene di indagare appieno le tematiche principali quali l’accettazione e le diversità. Probabilmente a causa dell’aderenza con la sceneggiatura originale che ha compresso la creatività e dunque la possibilità di ampliare il discorso in forma nostrana con qualche guizzo autoriale in più. Il film cerca di intrattenere come può il pubblico con gag e battute che non bastano per far sì che il tutto rimanga impresso nella memoria dello spettatore.
In vacanza su Marte
È possibile che un film appena uscito risulti già vecchio e stantio? Se il film in questione è un cinepanettone la riposta è più che affermativa. Boldi e De Sica ritornano insieme sullo schermo scegliendo la via più facile e meno faticosa: far ridere (con scarsissimo successo) usando battute e gag di almeno 25/30 anni fa. Un film fuori dal tempo, ma non in senso positivo come si può pensare di un qualsiasi capolavoro kubrickiano. I personaggi, i dialoghi e gli sketch sembrano fermi al 1995. Il mondo si è evoluto, i rapporti tra uomo e donna sono cambiati, così come la concezione delle nuove professioni digital; tutto ovvio e palese, basta accedere la tv o entrare in un qualsiasi social. Non però per Neri Parenti e il dinamico duo comico. Ciò che si prova nei 93 minuti di visione non è divertimento e nemmeno leggerezza ma solo tenerezza.
Tenerezza per qualcuno che prova a rimanere aggrappato con le unghie e con i denti ad un mondo che non esiste più e che mai più tornerà. La trama… parlare della trama è difficile perché come in ogni cinepanettone la narrazione è costruita su una serie di singoli eventi collegati gli uni agli altri dai soliti personaggi stereotipati. In questo caso la produzione ha cercato di inserire un elemento di “novità”, la fantascienza. Marte è stata infatti colonizzata ma rimane una terra selvaggia. Non essendo valide le leggi terrestri il già sposato e mai divorziato Fabio (De Sica) può convolare a nozze con la ricca Bea (Lucia Mascino), per accedere all’eredità della madre di lei (Milena Vukotic). Un incidente spaziale gli metterà per i bastoni tra le ruote, il figlio finendo in un buco nero ritornerà da lui anziano (Boldi).
La mia banda suona il pop
Fausto Brizzi torna alla regia raccontando la reunion dei Popcorn, band anni ’80 molto famosa in Russia e composta da Tony, Jerry, Micky e Lucky. Vladimir Ivanov, famoso tycoon russo, è un grande fan del gruppo e ha deciso di volerli riascoltare e, attraverso Olga, decide di contattare l’ex manager del complesso: Franco. Dopo un’iniziale reticeza farà di tutto per trovarli e farli tornare sul palco. Ciò si rivelerà però un’ardua impresa, dal momento che ciascuno di loro non ne vuole sapere degli altri. Ma il richiamo del denaro e del successo giocheranno un ruolo importante, tanto da farli riunire per un’ultima esibizione. Ma c’è qualcosa di strano e l’insospettabile Olga sembra avere un segreto. Tra gag e capovolgimenti thriller i nostri eroi cercheranno comunque di ritornare sulla cresta dell’onda.
Tutto molto bello, in teoria, ma in pratica? Ci si trova di fronte ad una commedia che non fa mai ridere, un revival anni ’80 fallito e privo di costrutto. Stupisce come quattro sceneggiatori non siano riusciti a cavare qualcosa di più onorevole di un cinepanettone, che fondamentalmente è il fratello maggiore della pellicola. Brizzi non trova mai la quadra, dalla messinscena alla colonna sonora, dalle situazioni comiche ai riferimenti cinematografici. Una scemenza italica che entra di diritto tra i peggiori film del 2020.
Lockdown all’italiana
La pandemia da COVID ha fornito materiale per esperimenti cinematografici in tutto il mondo. Se negli USA il sequel di Borat ha ottenuto un pregevole risultato di questo triste momento, l’Italia si è distinta in negativo con l’uscita di Lockdown all’italiana. In pieno stile cinepanettone, Enrico Vanzina mette in scena un lungometraggio dal sapore tanto anonimo quanto dimenticabile . Il soggetto è chiaramente il lungo lockdown vissuto dal bel paese in primavera. Prodotti di questo tipo sono da sempre controversi agli occhi di critica ma largamente apprezzati dal pubblico di non-cinefili, tuttavia questo periodo storico si rivela complicato per la satira dissacrante ed irrispettosa tipica di queste pellicole.
Se negli anni ’90 e primi anni 2000 il cavallo di battaglia di Vanzina & Co. erano battute sessiste e discriminanti, oggi questo tipo di comicità è irrealizzabile per un prodotto che punta al grande pubblico. Schiacciato dalla ricerca della risata facile e l’evitare di offendere qualsivoglia minoranza, Lockdown all’italiana non riesce a strappare nemmeno un sorriso. I tempi comici sono inesistenti e le battute prive di animo. L’opera di Vanzina Jr. riesce a realizzare l’impensabile: suscita nostalgia verso film come Vacanze di Natale a Cortina o Natale sul Nilo. Pensiamo che questo sia più che sufficiente per entrare di diritto all’interno della lista dei peggiori film del 2020.
Solo una domanda, perché?
365 giorni
Nella lista dei film peggiori del 2020 non può mancare 365 giorni, film erotico polacco uscito a giugno su Netflix. Diretto da Barbara Bialowas e tratto dall’omonimo libro della scrittrice Blanka Lipinska, questo film è un mix esplosivo di trama insulsa, comparto tecnico scadente e interpretazioni che oltrepassano abbondantemente i limiti del decoro. Massimo è un malavitoso del sud Italia, Laura è una donna manager di quasi trent’anni: un caso fortuito li farà incontrare. Per motivi poco chiari (sia a chi abbia visto il film, sia a chi non l’abbia visto) Massimo fa rapire Laura dai suoi uomini.
Ma non è tutto, perché l’uomo le dà un ultimatum: non solo non la lascerà andare per 365 giorni, ma scommette anche che, durante la prigionia, Laura si innamorerà di lui. E Laura che fa? Si innamora dopo pochi minuti, probabilmente ammaliata dagli addominali scolpiti del suo aguzzino. 365 DNI è rimasto a lungo in testa alla classifica dei film più visti su Netflix, ma è difficile immaginare il perché. Le scene hot sono esplicite, ma talmente mal recitate da risultare fastidiose ed esilaranti. Un film sessista, retrogrado, offensivo, artificioso e infarcito di stereotipi. Si minacciano un secondo e un terzo capitolo, ma noi continuiamo a nutrire la speranza che la grande N ci ripensi.
After 2
After 2 è il perfetto esempio del peggior prodotto cinematografico destinato ad un pubblico di adolescenti. Nel sequel di After, basato sull’omonima saga bestseller di Anna Todd, continua la tormentata storia d’amore tra Tessa Young e Hardin Scott. Dopo essersi lasciati, i due intraprendono strade diverse, anche se dimenticare il loro rapporto si rivela non facile. Inevitabilmente tornano insieme dopo poco tempo, dando vita a una relazione più matura, anche dal punto di vista sessuale. Nuovi ostacoli sono però all’orizzonte. Con questo nuovo capitolo si scopre che sullo schermo la storia di Hardin e Tessa non aveva ancora dato il peggio che poteva offrire: dal romanticismo antidiluviano si passa a un blando erotismo per adolescenti, accompagnato da toni trash e un pessimo utilizzo del mezzo cinematografico.
After 2 è un prodotto che perde di vista ogni aspetto relativo alla qualità e finisce per prendersi troppo sul serio, arrivando a fare paragoni con grandi opere letterarie. Il risultato finale non è altro che una pedissequa ricalcatura della storia di Cinquanta sfumature. Un vergognoso fan service, una sceneggiatura imbarazzante e scelte tecniche più che opinabili contribuiscono a peggiorare tale disastro. After 2 è lontano anni luce dall’essere un semplice film per adolescenti anche solo minimamente accettabile. L’eccessiva presunzione, il prendersi troppo sul serio e la cattiva qualità dell’opera lo pongono di diritto fra i peggiori film del 2020.
Hubie Halloween
Adam Sandler rappresenta forse un unicum all’interno del panorama cinematografico moderno. Tanto amato dal pubblico quanto odiato dalla critica. Una reputazione frutto di una carriera comica fatta di pochi alti e tanti, forse troppi, bassi, intervallata da interpretazioni drammatiche di alto livello. Tra queste possiamo ricordare il recente Diamanti Grezzi dei fratelli Safdie, l’intenso The Meyerowitz Stories di Noah Baumbach e l’acclamatissimo Punch-Drunk Love di P. T. Anderson. Un grande talento che perde tutta la sua incisività nel volersi piegare sempre e comunque alle logiche di mercato, prendendo parte senza soluzione di continuità a film comici privi di qualsiasi spessore. Produzioni spesso premiate ai Razzie Award che non aggiungono nulla al genere e che soprattutto raramente fanno ridere.
Hubie Halloween rappresenta la quintessenza di tutto ciò che la critica odia e che il pubblico è, in qualche modo, stufo di vedere. Ai più maliziosi potrebbe venire quasi il dubbio che Sandler abbia mantenuto la promessa fatta prima della scorsa edizione degli Oscar.
[…] vorrei vincere. Se non ci riesco, giuro che me ne torno a fare un film orribile di proposito solo per vendicarmi.
Il film racconta una storia di rapimenti e creature misteriose che prendono vita durante la notte di Halloween; elementi tipici dell’horror inseriti però in una cornice comica demenziale e oramai superata. Sandler interpreta l’ennesimo protagonista infantile e “bamboccione” che non riesce a relazionarsi col prossimo ma che si impegna per far sì che tutto intorno a lui vada per il meglio. Una trama sconclusionata e le stesse tre gag ripetute allo sfinimento non salvano né le capre né i cavoli, garantendo a Hubie Halloween un ingresso trionfale nella lista dei peggiori film del 2020.
Underwater
Un gruppo di scienziati che vive in una stazione di trivellazione, posta nei fondali oceanici della Fossa delle Marianne, è travolta da un evento improvviso. Un disastroso terremoto danneggia la stazione e lascia in vita solo pochi sopravvissuti. Questi scopriranno che le azioni dell’uomo in quel luogo hanno risvegliato pericolose creature marine. Con una storia del genere, si comprende che Underwater non è altro che un film derivativo: Alien è solo la prima opera che viene in mente. In questa scelta non si celerebbe nulla di male, ma purtroppo Underwater non riesce a portare sullo schermo nulla di originale.
Personaggi piatti e stereotipati, azione narrative prive di background e un approccio da film di serie B contribuiscono al deludente risultato finale. Nemmeno la presenza di Kristen Stewart, che imita pedissequamente la Sigourney Weaver di Alien, e Vincent Cassel permette al film di essere apprezzabile. Un ritmo narrativo serrato e immersivo, soprattutto nella prima parte, non riesce a nascondere una perenne sensazione di già visto. In Underwater purtroppo tutto è banale, prevedibile e facilmente dimenticabile.
Delusioni assortite
Feel the beat
Se Work It (altro dance movie distintosi per essere uno dei peggiori film del 2020) aderisce senza originalità alcuna alle dinamiche del genere con alcuni sprazzi di elementi tipici del coming-of-age, Feel the beat fa qualcosa di più: annoia. La storia è quella di una ballerina egoista e narcisista che ritorna nella cittadina che le ha dato i natali. Qui sopravvivono intatti i valori di umiltà, comunità e famiglia che aveva da tempo perso di vista. La giovane sarà costretta dalle circostanze ad insegnare danza ad un gruppo di bambine e lì ritroverà la sua parte umana e sensibile messa da parte nella competitiva New York dove ha vissuto inseguendo un sogno.
Feel the beat condensa cliché sul mondo della danza, parabole caratteriali sul cambiamento tramite la riscoperta di valori e abbandono genitoriale in un film che riesce quantomeno a mostrarci sequenze coreografiche ben girate e senza dubbio visivamente curate. Il film con Sofia Carson (più brava a ballare che a recitare) è destinato ad un pubblico di giovanissime, unico target possibile di un film innocuo e banale agli occhi dei più adulti.
Finding Agnes
Una madre rincontra dopo ben 25 anni dopo il suo abbandono il figlio Virgilio. Ciò avviene poco prima che la donna decida di lasciarlo una volta per tutte e senza alcun preavviso. Il protagonista sarà così spinto ad intraprendere un viaggio in Marocco per conoscere la sorellastra e poter finalmente scoprire il turbolento passato della madre. Finding Agnes, il film filippino diretto da Marla Ancheta e disponibile su Netflix, sin dall’inizio getta le basi per una storia che vuole commuovere a tutti i costi ma non ci riesce praticamente mai.
Il protagonista interpretato da Jelson Bey è un uomo solo, avaro, workaholic privo di appeal o fascino sulle donne, figurarsi sulle spettatrici. Usando toni, soluzioni narrative e visive tipiche delle soap del pomeriggio, Finding Agnes è distante e gelido anche nei momenti in cui dovrebbe entrare in empatia con chi guarda. Fallisce così nello stimolare qualsiasi tipo di risposta emotiva in chi guarda. Uno dei prodotti più dimenticabili di quest’anno che ci ha proposto Netflix.
Rivolta in ufficio
La storia di Rivolta in ufficio è molto semplice: Omar Buendia è un giovane messicano scapestrato, che gira per Città del Messico travestito da smartphone in cerca di follower. Dopo l’infarto di suo nonno deciderà però di cercarsi un lavoro, in modo da pagargli le cure mediche. Per fortuna verrà assunto, dopo un po’, da una ditta di comunicazioni: la Relo Tech. Qui inizierà a lavorare sotto la supervisione della dottoressa Tania Davich, dirigente dell’azienda. Così conoscerà la sua assistente, la bella Maribel Gandía, della quale si innamorerà perdutamente.
Tuttavia non è tutto oro quello che luccica e Omar, prima di ottenere il posto fisso, dovrà presentare un progetto al CdA, superando tradimenti e sotterfugi.
Rivolta in ufficio entra di diritto nell’elenco dei peggiori film del 2020 per svariati motivi, ma in primis per la sua insensata omofobia. Oltretutto si rivela una débacle nella trattazione delle tematiche, tutte minimizzate o banalizzate. Si percepisce per tutto il lungometraggio un’aura diseducativa, che non solo arriva a giustificare il mobbing, ma anche a volgarizzare l’amore. Le lacune sono evidenti sotto tutte le possibili angolazioni, dalla narrazione sincopata alle riprese da straight to video anni Novanta. Gravemente insufficiente!
Work it
Un coming-of-age mascherato da dance movie, in cui la danza serve come mero strumento di entertainment. Work It racconta la storia di Quinn Ackerman (Sabrina Carpenter) e della sua bugia bianca per entrare nelle simpatie dell’esaminatrice dell’Università dei suoi sogni. La ragazza finge di essere una ballerina e di essere nella crew hip-hop del suo liceo, i Thunderbird. In realtà Quinn dovrà imparare a ballare in pochi mesi. I motivi per inserire questo film tra i peggiori del 2020 ci sono tutti: il cliché sul brutto anatroccolo, l’immancabile love story con l’insegnate di danza, le prevedibili sequenze in studio nelle quali la goffaggine della protagonista diventa espediente comico e la mancanza di originalità di qualsivoglia elemento della trama.
Il film è poco credibile (e imperdonabile) su un punto in particolare: affermare che si può imparare a danzare in sole poche settimane. Ciò rende impossibile allo spettatore sospendere l’incredulità e godersi lo spettacolo. Inoltre la regista Laura Terruso non dandoci alcun pregresso interiore o sociale della protagonista per giustificare il bisogno di cambiamento, ci lascia con una domanda. Un colloquio per una prestigiosa università, che sembra prediligere una competizione di danza a un voto in letteratura, è una scusa plausibile per dare il via ad un incredibile, quanto poco credibile, metamorfosi?